Quintetto di Buenos Aires – Manuel Vasquez Montalban
Mi perdonerete se scriverò questa mia opinione in prima persona, con uno stile così lontano da quello impersonale che di solito mi contraddistingue; il motivo è molto semplice: questo libro non mi è piaciuto, non mi ha entusiasmato ed ho fatto una fatica infinita a finirlo.
In qualche modo riesco a percepire la portata dello stile di Montalban, così preciso e immediato, ma allo stesso tempo mi stanca e mi esaurisce.
Ho pensato a lungo al motivo e credo sia da ricondurre all'impressione avuta per tutta la durata della lettura, cioè quella di star sfogliando la sceneggiatura di un film.
La frase è spesso spezzata, priva della classica composizione, sono presenti parole seguite da punti, frasi corte che uccidono il periodo; le parti più vive, più piacevoli sono quelle che di solito trovo meno interessanti: i dialoghi.
Quando viene descritto un ambiente il fluire delle parole che si compongono sulla carta si fanno strumento della rappresentazione nella mia immaginazione, creando oltre alle figure anche suoni, odori e sapori, ciò non accade in questo caso, le raffigurazioni delle strade, delle stanze, dei singoli eventi sono descritte in modo freddo e anedonico generando in me il desiderio di trovare un dialogo.
Quando i personaggi parlano tutto si fa più leggero, più immediato, ma questa forma espressiva ha il grosso limite di non piacermi, per cui il gusto che provo nel nascondermi nelle parole assaporando il loro dolce suono viene del tutto disintegrato dall'odiosa voce dei personaggi che non possono rimanere in ombra, devono per forza di cose venire alla ribalta.
Credo che sia questa a forza di Montalban, creare dei personaggi particolari e crearne tanti, quasi al limite del credibile, caratterizzarli in modo impeccabile, non trascurando nessuna parte delle loro poliedriche personalità; allora che cosa manca in pratica a ciò che sulla carta sembra perfetto? Manca quel quid che rende un virtuosismo un'opera d'arte, manca l'ispirazione; quello che ho percepito è il semplice racconto di una storia, verosimile, ma è stato come se l'avessi letta in un articolo di cronaca locale, senza emozione.
Montalban riesce ad imbastire una storia interessante, tentando, ma non riuscendo per niente, a sfruttare i clichè argentini per dimostrare che l'Argentina è altro oltre a Desaparecidos, Maradona e Tango, ma chi Buenos Aires l'ha vista, anche per poco tempo come la sottoscritta, sa che ciò che rimane dentro è qualcosa di più, qualcosa che si respira non appena dall'aereo si iniziano a vedere le luci di quell'infinita città: il senso di libertà che pervade tutto l'essere e non lo lascia più.
Le Braci - Sandor Marai
“A gyertyak csonking egnek” è il titolo originale e credo che racchiuda in se stesso l'essenza di questo romanzo, alla lettera: "bruciare le candele fino in fondo".
Per quanto la trama sia interessante e il tema molto accattivante, ciò che spicca è lo stile; veloce e immediato, nel leggerlo sembra di nuotare in apnea e le pagine anche lontane dagli occhi non abbandonano il lettore, la voglia è quella di capire, di sapere, di scoprire; Marai in modo a dir poco magistrale centilina le informazioni e in sostanza tutta la struttura del romanzo di consuma in un monologo di uno dei due protagonisti.
“Le braci”, titolo col quale è stato tradotto in italiano fa riferimento ad un passaggio fondamentale della vicenda, ma non richiama in modo esatto il tema di fondo; questo romanzo è considerato un inno all'amicizia, ma l'impressione finale è che di questo sentimento ci sia ben poco tra i due protagonisti ed è forse in questo senso che la traduzione italiana trova la sua motivazione: passioni, emozioni e sentimenti che rimangono sopiti, ma che con un alito di vento divampano ancora dopo quarantun anni.
L'estremo numero ridotto di personaggi porta ad immaginare la vicenda su un palcoscenico di teatro creando un'intimità tale da far respirare la tensione che si crea e scandita solo dai rari rumori notturni e dal lento albeggiare.
I personaggi sono caratterizzati in modo perfetto, anche se del tutto opposto; Henrik in modo preciso, quasi didascalico; la luce si posa su ogni sfaccettatura della sua personalità, facendo comprendere e giustificare ogni suo singolo pensiero e facendolo divenire specchio per la compressione dell'amico Konrad che quasi non parla ed è descritto attraverso il racconto del padrone di casa, ma sono le poche laconiche parole che ne fanno capire la personalità articolata e sensibile.
Henrik pretende che sulla tavola ci siano delle candele azzurre (quelle del titolo originale), le stesse che erano presenti quarantun anni prima, l'ultima volta che i due si sono visti; queste si fanno testimoni e simbolo di antichi rancori, di antiche recriminazioni e la durata del racconto si consumerà in quel tempo, fino a quando la flebile luce generata dalla cera lascerà il posto a quella ben più intensa del sole estivo, metafora di ciò che tra i due è avvenuto; così come dell'antica candela non resterà che una pozza di cera e la luce sarà ormai spenta così gli antichi rancori saranno spazzati via dal lungo racconto, ma l'amicizia tra i due non tornerà mai più a brillare.
Alla conclusione del volume rimangono molti dubbi, perché quasi niente è confermato e capire chi dei due sia stato mosso dall'amicizia più sincera è assai difficile da affermare e rimane oggetto di riflessione molto intima.
C'è un altro personaggio, oltre alla donna che sta alla base dell'allontanamento dei due, forse unica nota stonata di tutta la vicenda, movente così scontato e banale che non rende giustizia alla maestosità della struttura del romanzo, la balia di Henrik. Nini ha novant'anni ed è la depositaria di tutti i segreti, di tutti i sospiri del castello e della vita del padrone; l'amicizia tra i due è davvero incondizionata e pura, indissolubile e tenera; il sentimento che corre è insaziabile e privo di ogni accezione negativa.
In conclusione un testo che rimane dentro, un stile che lascia senza fiato, una trama che induce a moltissime riflessioni su quel sentimento così incomprensibile e raro che è l'amicizia.