Una chiosa al bell'intervento di Nubulina: non so quasi nulla di filosofia del diritto e affini, ma ricordo vagamente che ci sono varie possibili giustificazioni per un sistema penale. Nubulina ci ha citato la redenzione e la vendetta; piu' pragamaticamente, una societa' decide pene e affini anche come autodifesa.
In quest'ottica (autodifesa di una societa' contro comportamenti inaccettabili), da Beccaria in poi c'e' un certo consenso sul fatto che come deterrente la pena di morte sia inefficace; quanto al considerare la pena di morte come unico mezzo di rendere incapace di nuocere un pericoloso sociopatico, credo sia giustificabile solo in societa' di pochissimi individui troppo impegnati nella lotta per la sopravvivenza da poter instaurare un minimo di sistema carcerario.
Non ricordo chi lo disse, ma "Da sempre gli uomini si puniscono, e da sempre si chiedono perché si puniscano."
In fondo, è la base del diritto penale in uno stato moderno, dove la pena (inflizione di un male in senso lato, a fini di giustizia) e la sua applicazione hanno dato origine ad una filosofia sterminata.
Sino a Cesare Beccaria, ma la concezione dura ancora oggi sia chiaro, la pena era vista unicamente come vendetta di Stato per il male compiuto: hai trasgredito il tal precetto, e lo Stato (re, imperatore, repubblica, quel che fosse) ti punisce retributivamente infliggendoti un male ritenuto congruo rispetto al male che tu hai fatto. Se volete, è una legge del taglione in chiave di giustizia, con le garanzie del processo statale. Si chiama teoria retributiva, e deve essere chiaro che trova ancora molti seguaci. Purtuttavia essa non riesce a sfuggire ad un'obiezione decisiva: come si determina l'esatta proporzione tra il reato commesso e la punizione? In base a cosa posso dire che, poniamo, una rapina equivale esattamente a dieci anni? Ossia, come posso dire che il male arrecato con una rapina viene compensato da dieci anni in galera? Non ci sono criteri utili.
Le teorie più moderne, dicevo, fanno capo a Cesare Beccaria, che ha sviluppato la teoria della punizione come generalpreveniva: la minaccia del male, quand'anche un male "piccolo" dovrebbe servire quale deterrente dal compiere la lesione del bene tutelato nella norma penale. Gli anni di carcere previsti per l'omicidio (da ventuno a ventiquattro, per la cronaca, se non ci sono aggravanti) dovrebbero trattenere i consociati dal commettere il delitto in questione, proprio per la minaccia della sanzione, e ciò dovrebbe tutelare i valori fondamentali della società.
Presupposto perché questa teoria, che va per la maggiore, di giustificazione del sistema penale funzioni, ovviamente, è che il reato sia effettivamente scoperto e punito, perché non c'è nulla che funga da peggior attentato alla deterrenza quanto la certezza dell'impunità.
Il rischio che ciò comporta è che la punizione possa diventare eccessivamente esemplare e non effettivamente modulata sul reo agente di fatto. Intendiamoci: la sanzione esemplare ci sta ed è quasi connaturata al sistema, ma non deve diventare la regola, e soprattutto non deve essere esemplarmente eccessiva.
Una terza corrente, chiamata specialpreventiva, vede nella pena non un fine di deterrenza, ma di neutralizzazione del reo, perché egli non possa delinquere più. Ma questa corrente è minoritaria, perché comporta la possibilità che il sistema diventi eccessivamente repressivo.
Ora, la Costituzione italiana, fantastica nei suoi principi fondamentali quanto necessitante secondo me di ritocchi nell'architettura statale, prevede che la pena debba avere carattere rieducativo, ossia debba permettere al reo sia di capire il male fatto, sia consentirne il rientro nella società una volta scontata la pena.
Però sia chiaro che la rieducazione non è un lavaggio del cervello di Stato: non è un'adesione forzata ed imposta ai valori tutelati, nei quali il reo potrà anche non credere per il resto della vita! L'importante è che non attenti a tali valori "nei fatti", perché altrimenti si punirebbe la mera opinione, e ciò sarebbe la negazione stessa di quella libertà sociale che il diritto penale dovrebbe tutelare quale extrema ratio, laddove non ci siano altri strumenti di tutela più "leggeri" ed adeguati.
Se questo è, la pena di morte non può avere carattere rieducativo. Magari lo ha di deterrenza, ma certo non di rieducazione. E da questo, al di là della "durezza" personale, dovrebbe conseguire la sua immediata inumanità.
Certo, a parole è tutto facile. Come però disse il buon Kaine, "Se i supercattivi più malvagi continuano a tornare ed uccidono degli innocenti [il riferimento è a Carnage che per l'ennesima volta ha fatto una strage], la colpa è di chi non li ha saputi fermare."
Per quanto comprenda tale posizione, per me la pena di morte resta inumana. Se proprio non vi è altra soluzione, c'è l'ergastolo, che però viene considerato da molti non rieducativo, e quindi a sua volta da abolire.
Ora, se ripensiamo al massacro in Norvegia, il suo autore, assassino di quasi ottanta persone, ha avuto il massimo della pena in Norvegia: vent'anni. Siamo sicuri che ciò funga da vero deterrente per gli altri e rappresenti una vera neutralizzazione del reo perché non si corra il rischio che egli commetta altri reati?
Meditiamoci perché, per quanto il diritto penale possa sembrare, tra carceri e sanzioni pecuniarie, abominevole, ancora non siamo pronti per una sua compressione eccessiva, purtroppo...