Adoro scrivere. E adoro Don Camillo, il personaggio inventato da Guareschi. Questo racconto, da me scritto, lo vede tra i personaggi, assieme al Cristo dell'Altar Maggiore. Ma il protagonista non è lui, no. I protagonisti sono un milionario americano e suo padre, i principali interpreti di una storia sconvolgente. Mi scuso fin d'ora per la lunghezza, ma mi piaceva l'idea di condividerlo con voi. Ecco quindi:
Vecchia storia della Bassa
“Certo che a New York e a Las Vegas non si respira l’aria che si respira qui.”
L’auto svoltò a destra e si impantanò nel fango. Il fango della Bassa è una robaccia maledetta: ti cattura senza pietà e gioca con te come il gatto con il topolino; si prende gioco di te, facendoti credere di essere normale fango di qualsiasi altro posto del mondo, e poi… ti ghermisce con una presa d’acciaio, da cui non puoi fuggire. Il fango della Bassa è un gran gradasso ma, d’altro canto, ne ha ben donde. Tutte queste cose, lui le sapeva bene.
“Porca vacca… mi tocca andare avanti a piedi”
Dalla macchina scese un uomo sui venticinque-ventisei anni. Era vestito elegantemente: portava una giacca di cachemire, pantaloni di raso di seta e scarpe firmate. Lo sguardo, così come il portamento, era fiero. Sembrava che a quel giovane tutte le cose che nella vita terrena terrorizzano l’uomo, come la morte, la povertà e la guerra, non lo sfiorassero nemmeno. A vederlo non avresti mai detto che fosse nato e cresciuto da quelle parti.
“Le mie scarpe…”
Già, quelle scarpe autografate da ottocentoventidue euro e novantanove centesimi stavano lentamente affondando nella gioviale e simpatica melma padana. Senza perdere tempo, uscì da quella macchia di fango, prima che potesse avvinghiarsi con cordialità alle sue gambe, e si diresse verso i campi.
Don Camillo era appena fuori dalla sua chiesetta, impegnato a prendere il sole. Trovare un sole così caldo e rassicurante in una giornata autunnale della Bassa, era un colpo di fortuna che sarebbe risultato difficile persino ad un Gastone Paperone qualsiasi. Immerso così nei suoi pensieri, don Camillo non si accorse subito dell’uomo che stava passando davanti a lui, fino a quando, per una pura casualità, non gli cadde lo sguardo sul giovane. E quello che vide lo fece rimanere a bocca spalancata.
“Allora, don Camillo? Che ci fa lì con quell’espressione da pesce lesso?”
Dopo qualche minuto, don Camillo rientrò in possesso del dono della parola.
“Giacomino… s-sei proprio tu?”
L’uomo che don Camillo aveva davanti era Giacomo Turone, detto Giacomino, per quanto da piccolo era gracile e minuto, figlio del più importante proprietario terriero della zona, il Turone. Giacomino era sempre stato un ragazzo buono come il pane, ma che spesso, quando era chierichetto di don Camillo, si faceva trascinare in cose più grandi di lui. Questo aveva fatto sì che il rapporto con suo padre fosse stato costruito e modellato solo a suon di scapaccioni. Spesso Giacomino non nascondeva di provare un odio profondo verso il padre, e così, all’età di diciannove anni, aveva fatto l’autostop fino a Genova, dove si era imbarcato clandestinamente su una nave mercantile per l’America. Da allora il figlio aveva tagliato i contatti con tutti gli abitanti del paese, genitori compresi, e nemmeno si sapeva se fosse sopravvissuto. E ora eccolo lì, davanti a don Camillo, che dalla sorpresa si reggeva a malapena in piedi.
“Perché non ti sei più fatto sentire?” chiese don Camillo. “I tuoi erano preoccupati da morire.”
“Che si preoccupi pure, quel vecchio bacucco. Non ci credo nemmeno se lo vedo. Ha il cuore arido come il deserto.”
Don Camillo lo squadrò con attenzione: non era sicuro di volergli dire quello che stava per dirgli, ma qualcuno il lavoro sporco lo deve pur fare.
“Hai saputo di tuo padre? Lui… lui sta per…”
“Per schiattare, era ora. So tutto. Sono qui per questo.”
Don Camillo intravide un leggerissimo bagliore di umanità.
“E anche per sbattergli in faccia il mio successo! Sì, a quel maledetto. Diceva che andando avanti così nella vita non sarei riuscito a fare niente. E invece…”
Il bagliore si spense all’improvviso.
“Invece qualcosa l’ho fatto! Sono il più giovane milionario d’America! Ho fatto fortuna: investimenti, borsa, petrolio… E tra qualche anno potrei diventare uno degli uomini più ricchi del mondo!”
“E chi l’ha detta questa cosa?”
“Uno dei giornali più autorevoli d’America: il New York Times.”
Don Camillo stette a guardarlo per un po’.
“Senti, Giacomino, io sono solo un povero, ignorante prete di campagna, che al massimo mastica un po’ di latino, ma i giornali li leggo. Come mai non ho saputo nulla di te?”
“Ho cambiato nome. Per loro sono Jacob Turner. Ho deciso di tagliare i ponti con il passato.”
“Però intanto sei qui.”
Giacomino gli lanciò un’occhiataccia.
“Sì, per far finalmente schiattare d’invidia quel macaco ringalluzzito!”
Stavolta fu don Camillo a guardarlo male.
“Quarto comandamento: onora il padre e la madre.” borbottò don Camillo.
“Con i vostri comandamenti ci faccio la birra. Non siete altro che un…”
Giacomino imprecò e urlò cose che avrebbero fatto rizzare i capelli persino ad un calvo. Ma don Camillo non era un calvo.
“Carissimo” disse pacatamente. “Se oserai ancora pronunciare quelle parole davanti ad un ministro di Dio o alla casa del Signore, ti appendo a quel palo laggiù e ti prendo a ceffoni a due a due fino a quando non diventano dispari.
Nonostante non lo vedesse da anni, Giacomino si ricordava ancora perfettamente del gancio di don Camillo. E, anche se erano passati più di cinque anni, non credeva che la potenza con la quale colpiva gente come il Brusco, l’uomo più forte della banda di Peppone, fosse diminuita, affatto. Così decise che forse era meglio filarsela, prima che don Camillo cambiasse idea e lo appendesse veramente a quel palo.
“Con permesso” disse. E se ne andò verso i campi.
Don Camillo stette a guardarlo fino a quando Giacomino non scomparì all’orizzonte.
“Bah… gioventù moderna!” commentò, mentre rientrava in chiesa per sfogarsi con il Cristo dell’Altar Maggiore.
Qualcuno bussò alla porta.
“Chi sarà?” si chiese la moglie del Turone. Andò ad aprire e quando si ritrovò davanti al figlio rimase anche lei a bocca aperta, come don Camillo.
“Giacomo… sei… sei proprio...”
“Sì, mamma: sono io”
La vecchia scoppiò a piangere per la commozione e si gettò sul figlio, stringendolo in un abbraccio fortissimo. Tante notti aveva sognato il ritorno del figliol prodigo; e adesso eccolo lì, davanti ai suoi occhi. Era al settimo cielo. Nonostante l’affetto che la madre stava riversando su di lui dopo tanto tempo, Giacomino era glaciale. Non un’emozione attraversava quell’espressione fredda.
“Dove eri finito? Che hai fatto? Perché non…”
“Dov’è papà?” chiese.
La donna, improvvisamente, si rabbuiò.
“E’ nella tua vecchia stanza. Lui è…”
“Sono qui per questo”
“Ormai non riesce più nemmeno a parlare. Ma non pensiamoci: ora dobbiamo essere felici, perché tu sei…”
“Voglio andare da lui.”
“Ma…”
“Devo andare da lui”
La vecchia si zittì.
“Sta bene. Ti accompagno.”
Don Camillo si sedette, si accese il suo solito toscano e, tra una boccata e l’altra, si alzava e si metteva a camminare nervosamente su e giù per la sagrestia.
“Don Camillo, don Camillo” lo ammonì il Cristo dell’Altar Maggiore. “Sai bene che non dovresti fumare in chiesa.”
“Certo che lo so bene, Signore. Ma sono così nervoso. Non immaginereste mai chi ho incontrato…”
“Giacomo Turone, il figlio del Turone. Lo sai che io vedo tutto.”
“So bene anche questo, Signore. Il punto è che è pieno di odio per i suoi genitori. Ho paura che…”
“Di cosa hai paura, don Camillo?” gli chiese, anche se, ovviamente, lo sapeva.
“Che potrebbe far fuori il vecchio prima che giunga la sua ora. Ecco, l’ho detto.”
“La sua ora ormai sta per giungere. Non dovrebbe aspettare troppo.”
“Signore, Giacomino è pazzo. E i pazzi possono fare cose assurde.”
Don Camillo era ancora più nervoso di prima.
“Hai ragione , don Camillo. I pazzi possono fare cose assurde. Possono
uccidere. Oppure possono anche…”
“Possono anche cosa?” chiese don Camillo. E all’improvviso si bloccò di colpo e si voltò verso il Cristo.
“Non starete dicendo per caso che…”
“Le vie del Signore sono infinite, don Camillo.”
“Ma è assurdo! Una persona ricca come lui.”
“Ricorda che il denaro non sempre può dare la felicità.”
“Avete ragione come sempre, Signore. Lo credo anche io.”
“Non è vero, don Camillo; se no perché tutti i giorni vorresti vincere al Totocalcio?”
Don Camillo borbottò alcune frasi incomprensibili.
“Quindi voi state dicendo che…”
“Forse, don Camillo. Forse…”
“Impossibile. Non ci credo nemmeno se lo vedo.”
Ma sapeva di mentire a se stesso. E infatti, cinque minuti dopo, si era già tirato addosso il tabarro ed era uscito velocemente, dirigendosi verso la casa del Turone.
“Vi lascio da soli” disse la vecchia, andandosene.
Rimasero soli in quella stanza solo Giacomino e il padre, che giaceva esanime sul letto che era stato del figlio. A vederlo così avresti potuto tranquillamente dire che era morto; l’unico sprazzo di vita in tutto il suo corpo erano gli occhi che, se pure a fatica, si muovevano. Giacomino, dopo aver osservato la sua stanza e considerato che, tutto sommato, non era molto cambiata da quando l’aveva lasciata, si girò verso il vecchio. Stette a guardarlo un po’ e poi iniziò a parlare:
“Guarda, guarda… non sei più cosi potente ora.”
Il vecchio lo guardò. Giacomo era compiaciuto.
“Ti ricordi di come trattavi me e mia madre, eh? Te lo ricordi?”
Sogghignò:
“Quante volte mi hai preso a scapaccioni… ricordi? Tornavo a casa la sera e, nemmeno il tempo di spiegare cosa era successo, che tu mi prendevi a ceffoni. E mamma piangeva, piangeva a vedermi soffrire così. Lei stava male. Tu lo sapevi, ma te ne fregavi.”
Lo guardò con odio:
“Avevi pure il coraggio di giustificarti. Li sentivo i tuoi discorsi con mia madre. Lo devo educare così, se no da grande sarà un disadattato. Invece ho ripudiato il tuo modo di fare, e guardami! Sono ricco, ho avuto successo, ho…”
Ormai gli mancava il fiato e no aveva più la forza di parlare. “Maledetto, maledetto!” borbottò, uscendo dalla stanza.
Uscito dalla stanza, Giacomino andò a parlare con la madre.
“Gli hai parlato?” chiese la vecchia.
“Sì, gli ho detto quello che dovevo dirgli”
La madre lo guardò con aria malinconica.
“Vieni. Devo farti vedere una cosa”
La vecchia lo accompagnò fino alla propria camera.
“Apri quel cassetto”
Giacomino lo aprì e dentro ci trovò una lettera.
“E’ di tuo padre per te. Voleva che la leggessi quando sarebbe morto. Puoi leggerla ora.”
Giacomino aprì la busta e iniziò a leggere la lettera. E più la leggeva più gli saliva un groppo in gola. Alla fine era disperato.
“Mio Dio… lui… lui…”
Sapeva che nel secondo cassetto c’era una pistola. La tirò fuori e sparò.
“…riposino in pace, amen.”
Don Camillo aveva i brividi. Non si sarebbe mai aspettato di dover celebrare due funerali insieme. Soprattutto se uno dei due era Giacomino, il milionario. Si era suicidato sotto gli occhi della madre, per una lettera del vecchio Turone. Gesù aveva ragione; purtroppo don Camillo era arrivato troppo tardi. La lettera l’aveva letta e gli era venuta la pelle d’oca.
Finito il funerale, andò a parlare con il Cristo dell’Altar Maggiore.
“Signore, è giusto che sia finita così?”
“No, don Camillo, ma si sa: le vie dell’uomo sono infinite, più di quelle del Signore…”
“Già” rispose. “Ha ragione lei, come sempre.”
E uscì, nel nebbioso pomeriggio autunnale della Bassa.