Con un certo ritardo mi sono recuperato la live e tutto il papocchio di commenti sul Paper che sono seguiti. Sorvolando sulle bambinate, sono rimasto abbastanza spiazzato da quanto poco sia stato capito il mio riferimento all’Uno svolazzante e spara-laser. Forse è il caso che spieghi meglio il motivo per cui ritengo che quel dettaglio sia spia di un problema più profondo e non un problema in sé.
Irridere il concetto di “tecnobubbola” dicendo che è da bambini aspettarsele, dicendo che i personaggi devono essere piegati alle necessità della storia (storia che poi in fin dei conti non è altro che una scazzottata infantile) e che non è davvero importante spiegare come Uno attraversi lo spazio e il tempo significa non solo non aver compreso lo spirito alla base di Pk ma di star clamorosamente sottovalutando anche altri aspetti del proprio mestiere di narratore.
Sfatiamo il campo da equivoci. Della tecnobubbola “in sé” a nessuno veramente importa. Io stesso, da ragazzo, non è che ne fossi particolarmente fan, mi concentravo giustamente su altro. Il ruolo della tecnobubbola era però un altro: rimanere dietro le quinte, facendo avvertire indirettamente la propria presenza. In termini di storytelling stiamo parlando dell’iceberg: lo sceneggiatore parte da un ragionamento tecnico, lo concepisce in modo solido… e inizialmente se lo tiene per sé. Però poi costruisce sopra di esso la propria storia e il proprio mondo, che acquisterà così una sua solidità strutturale… e finirà per sembrare reale al lettore. Poi se sarà il caso di approfondire, di aggiungere note, spiegoni interni ed esterni, rubriche, interviste web questo tecnicismo emergerà, a uso e consumo del lettore più affamato e attento. Altri lo ignoreranno, e sarà giusto così. Ma tutti, durante la fruizione ne avranno avuto percezione e per quel piccolo magico momento… ci avranno creduto. Perché difatto la narrazione questo è, raccontarmi una bella bugia e fare in modo che temporaneamente io ci creda.
Dire “vabbè non è importante, Uno mi serviva lì” oppure “vabbè ha usato una supertecnologia… che mi sono appena inventato” invece è un procedimento opposto, perché smaschera brutalmente un processo creativo fallato. Che porta il lettore a non crederci più. E quando succede questo, apriti cielo, si rompe qualcosa.
Rafforzo con un ultimo esempio, per sgombrare il campo da altri equivoci. Una delle cose che funzionano di più nello scenario narrativo dell’ultimo secolo sono stati gli universi narrativi ben definiti. Saghe come Star Wars o Il Signore degli Anelli non sono belle solo per la trama che raccontano ma per l’universo che vanno a delineare e che spinge gli spettatori inevitabilmente… a crederci. I loro autori si sono inventati lingue, razze, culture e pianeti da rendere poi teatro delle loro storie. Raramente hanno fatto l’inverso, sono sempre partiti dalla base dell’iceberg, da quello che ad una lettura superficiale si potrebbe ritenere accessorio. Tolkien stesso ha costruito la sua Terra di Mezzo nel tempo ma all’inizio di tutto c’è stata la costruzione di ben due lingue elfiche. Due lingue con la loro grammatica, la loro fonetica, i loro dialetti, i loro cervellotici e ridondanti dettagli. La tecnobubbola suprema. E sai che c’è? Che a me di imparare l’elfico non me ne frega proprio niente, e la linguistica mi annoia a morte. Però poi quando sento parlare gli elfi e mi accorgo che per davvero usano la stessa parola “Galad” ogni volta che intendono dire “Luce”, ecco che qualcosa in me, lettore scafato e disilluso, si riaccende. Ancora una volta la magia si compie e io ci credo.
Pk non sarà Tolkien ma si è sempre distinto per un worldbuilding di qualità superiore alle storie Disney tradizionali. Motivo per cui gli si sono sempre perdonati blooperoni clamorosi, palesi toppe e grottesche retcon. Non era mai venuta a mancare però quella sensazione di credibilità, quella sensazione di star seguendo una narrazione consapevole e in linea con quanto detto prima. Questo si chiede, da lettori. Che non significa volere le cose vecchie. Credo che nessun lettore qui avrebbe rivoluto gli evroniani o avrebbe mai ritenuta necessaria la presenza di Uno e Lyla per fare Pk. Non è una questione di personaggi ma di spirito, di approccio. Per fare una bella storia di Pk non è nemmeno necessario che ci siano i personaggi di Pk. Sta tutto nel processo creativo alla base. E quello può e deve rimanere una costante della serie, al netto di qualsiasi sacrosanta variazione stilistica che invece è assolutamente benvenuta.
Poi vabbè, questo della credibilità e del worldbuilding è un aspetto. Ci si sarebbe passati pure sopra se la storia in sé fosse stata differente. E invece era caotica, confusionaria, poco scorrevole, umoristicamente scarsa (la sbobba?) e via dicendo. Insomma boh.
Ah, chiudo con un ultimo, poco piacevole, dettaglio. Altro aspetto che fece la fortuna della serie era il dialogo brillante con il lettore. Il Pker veniva… pungolato, stimolato e spesso anche sfottuto, ma sempre nel rispetto del patto narrativo. Si passava dalla bonaria presa in giro della Pk Mail alla “tecnobubbola” nelle rubriche che però era sempre scritta partendo da nozioni scientifiche reali che non prendevano per stupido il lettore. Non stupisce che sia stato proprio Pk a provocare per la prima volta la nascita di fan club e delle primissime community online, quando ancora Internet era il miraggio di pochi. Sono passati ventitre anni da allora, e adesso Internet è entrato nella vita di tutti, le community si sono moltiplicate… ma la presenza social di Pk si è paradossalmente ridotta allo sceneggiatore che va sul forum a fare “gne gne”. No dai, si può fare molto meglio di così.