Recensione Topolino 3432 «La parte più difficile dello scrivere per mestiere è proprio la prima, quella più creativa, quella, cioè, in cui si ha la necessità di avere una buona idea e di lavorarci sopra per svilupparla.
Quindi dove si trovano queste idee? Dappertutto». È con queste parole che
Sergio Badino commentava le “fasi del fumetto” nel primo capitolo di un suo fortunato manualetto di sceneggiatura pubblicato da Tunué nel 2007.
La missione di ogni autore, del resto, è comunicare al proprio pubblico qualcosa di eterno o perennemente reiterato, il classico, ma con
uno sguardo nuovo e con l’attenzione a quel determinato particolare o a quella singola circostanza che possano ridestare l’attenzione dei più.
Il ritorno dello sceneggiatore genovese, decisamente prolifico su
Topolino nel primo decennio di questo secolo e poi quasi del tutto assente nel secondo, con una storia di copertina in quattro puntate, per di più disegnata da una delle principali firme disneyane di casa nostra,
è da seguire con una certa attenzione. Se è vero, tornando all’assunto “badiniano”, che le idee sono dappertutto, è altrettanto assodato che le stesse debbano essere sufficientemente buone per poter essere ricordate in seguito.
Date le avvisaglie,
Siamo serie! sembra corrispondere appieno all’identikit:
un’intuizione solida che si intreccia alla perfetta riconoscibilità dell’argomento trattato da parte del pubblico.
In una precedente recensione, sostenevo che una delle parole d’ordine dell’attuale corso di
Topolino fosse l’intraducibile
relatability: settimana dopo settimana, questo concetto si rafforza e continua a costituire la base del progetto editoriale bertaniano.
Tenersi aggiornati e al passo è fondamentale
Una parola “nuova” applicata ad una consolidata tradizione, dato che la necessità di parlare della società alla società stessa è uno dei cardini della pluridecennale
vis satirica dei migliori fumetti Disney.
Il legame stesso tra Topi e Paperi e il piccolo schermo è strettissimo, essendo l’intrattenimento televisivo una costante che ha unito diverse generazioni dai primi anni Cinquanta a oggi, con formule nuove e diverse, notevoli capacità di adattamento e di evoluzione.
Ma, se negli anni Novanta l’esigenza era quella di prendere platealmente per i fondelli il mondo delle
soap strappalacrime attraverso l’ormai iconica
Papernovela o anche la pikappica
Patemi,
oggi il discorso si fa più complesso e articolato.
In risposta ad un mercato fiorente che trabocca di serie TV, linee narrative orizzontali e verticali,
lore e
continuity, fedeltà alla linea da parte degli abbonati alle varie piattaforme
streaming,
Badino trova una buona idea e propone una vivace e per ora riuscita satira di costume, ben supportata dai disegni di Silvia Ziche.
Il
transfert con le vicende del
Papero del mistero, però, sembra finire qui dato che l’interesse dell’autore si focalizza prevalentemente sul
dietro le quinte del processo creativo, dalla scrittura alla messa in scena, e così via. Siamo quindi un po’ a metà tra la piacevole e azzeccata ironia – specie su due serie di grande successo popolare, qui opportunamente disneyanizzate in
L’amaca geniale e
Tanto ebbi – e la narrazione più o meno “didattica”.
Il classico scontro impari Nella prima puntata, infatti, dall’eloquente titolo
Com’è dura la scrittura, si ritrovano i concetti che Badino esprimeva nel suo
Professione sceneggiatore e si parla della difficoltà di mettere insieme più menti e sensibilità nella cattura e gestione delle idee. Non manca naturalmente il classico, e mai parco,
uso del calembour alla disneyana, per cui ad esempio i buchi di sceneggiatura sono un concetto fisicamente visibile, ma alla fine il risultato è gradevole e, soprattutto!, incuriosisce spingendo a volerne sapere di più sulla produzione della serie TV targata PdP, passo dopo passo.
La sinergia con la Ziche in questo caso funziona molto bene e riporta alla memoria i buoni risultati ottenuti da quest’ultima in
collaborazione con Marco Bosco qualche anno fa. In un certo senso, affidare alla disegnatrice veneta una storia imbevuta di riconoscibile parodia della realtà è stata
una scelta quasi obbligata, e non solo per il ricordo della
Papernovela o della meno celebrata
Rivondosa.
A caccia di sceneggiatori
Quello della Ziche del resto è
un nome che automaticamente richiama il senso della satira. Resta solo da vedere, nelle prossime tre settimane, se lo scalcagnato gruppo di lavoro coordinato dalle
showrunner Paperina e Chiquita raggiungerà il risultato cui sembra voler puntare già da ora. Da sottolineare, infine,
un’attenzione non stereotipata ai personaggi femminili.
Paperbridge di
Marco Gervasio, nel frattempo, continua a rispondere al richiamo della
continuity serrata, strizzando l’occhio a un certo tipo di lettori affascinati dalle citazioni, da Méliès a Barks.
Giunti al secondo episodio di questa “seconda stagione”, a prevalere è una chiara volontà di approfondire le relazioni tra i giovani personaggi, mentre il
villain recuperato e riadattato per l’occasione sembra ancora un po’ sacrificato, per quanto si stia comunque creando
una discreta attesa nei suoi confronti. Il
cliffhanger con cui si concludeva la precedente serie di
Paperbridge aveva messo una certa curiosità per
il “professor” Cuordipietra Famedoro, ma qui si è visto poco per ora, se non una sua scarsissima propensione all’insegnamento.
La chiara copertura per biechi fini da parte dell’infido sudafricano, infatti, serve al momento a
rimescolare le carte tra le amicizie e le rivalità interne al gruppo di paperi che ruotano attorno al giovane Quackett: l’inserimento di Roger Barkserville riporta alla mente
un episodio della serie incentrata sulle gesta di Fantomius, ma bisogna ancora vedere dove si andrà a parare con questa relazione pericolosa tra il nerosopraccigliato(!) Cuordipietra e il rampollo in questione.
Il sense of mystery se non altro è ben dosato nelle scene ambientate nel famigerato “lato oscuro” del college, specialmente per quanto riguarda l’intrappolamento di Quackett nella biblioteca segreta collegata alla scena del… Krimen (si passi la battutaccia); in più vari tasselli cominciano a posizionarsi.
Ma ciò che è più interessante, come detto, sono le interazioni tra i giovani paperi su cui Gervasio sta costruendo una vera e propria mitologia, e su questo è forse d’uopo spendere qualche parola.
Biblioteche nascoste, passaggi segreti e buoni amici
L’idea di Paperbridge strizza evidentemente l’occhio al successo che la narrativa young adult e gli stessi teen drama hanno avuto nel corso degli ultimi decenni: la sensazione di trovarsi in
una sorta di Hogwarts disneyana è sempre più forte.
Non ci sono «sventolii di bacchette o stupidi incantesimi» in questo caso, ma la quotidianità scolastica, i sospetti nei confronti di insegnanti più o meno loschi, le ali segrete e proibite della scuola, per non contare le frequenti avventure notturne in orari proibiti riportano tantissimo a
Harry Potter.
Il tutto, naturalmente,
mutatis mutandis: l’opera di J.K. Rowling è stata epocale e quasi identitaria per la generazione dei
millennial, mentre qui stiamo parlando di un progetto autonomo e indirizzato a un
target potenzialmente diverso, più vicino ai nati dopo il 2000 e al loro modo di fruire i prodotti di intrattenimento.
Ciò detto, però,
Gervasio compie delle scelte intelligenti nell’attenzione al worldbuilding in cui fa muovere il giovanissimo Quackett, nel tentativo di sedurre anche chi viaggia sulla trentina e più. Il fatto stesso che ci sia stata questa “seconda stagione” è certamente indicativo del favore che
Paperbridge ha riscosso nel 2020 tra i lettori di
Topolino, senza particolari o nette distinzioni di età.
Ma è proprio per questo motivo che, al contempo,
stupisce un’affermazione di Bertani nel suo editoriale: è come se si intonasse un inaspettato
De profundis con quel «
mettere definitivamente la parola fine». È un fatto che sorprende, e molto, soprattutto perché
siamo a un solo episodio dalla conclusione; lo stesso Cuordipietra, come si diceva, non si è ancora mostrato per quello che è davvero e queste due puntate suonano ormai come delle lunghe introduzioni volte prevalentemente a destabilizzare le acerbe e impulsive sicurezze di Quackett.
Sicuramente Gervasio ha ancora le sue carte da giocare, ci sta abituando nel corso degli ultimi anni a piacevoli guizzi; a noi non resta che aspettare qualche altro giorno per leggere l’episodio finale,
Il segreto di Famedoro, e per trarre un bilancio sull’esperimento
Paperbridge.
Un nuovo mistero da risolvere… Ciò detto, guardando alle altre avventure in sommario, è impossibile non
riflettere sul contesto in cui Topolino 3432 si ritrova. Ai fumettistici bagordi di agosto (in cui ci si è inebriati – si spera – anche di vino e di calore) risponde un settembre che principia, senza continuare con la citazione cantautorale, con
un non troppo vago senso di transizione.
La serialità che caratterizza più di ogni altra cosa la
vision del nuovo
Topolino è anche qui presente, lo abbiamo visto con le prime due storie, ma si impone in maniera meno preponderante rispetto ai mesi scorsi. Ed è anche giusto così: dopo un’estate densa di ritorni (Pezzin e Macchia Nera) e di addii (Reginella) bisogna rallentare il passo per riprendere un po’ il fiato in vista, ad esempio, dell’imminente
Ducktopia.
Ma si parlava di transizione: tutte le altre storie presenti in quest’albo vanno esattamente in quella direzione per confezionare
un numero “nella media”, senza particolari virtuosismi, tradizionale nella sua impostazione scanzonata. Fa quindi piacere rivedere i nomi di due validi autori già pilastri del settimanale:
Rudy Salvagnini e
Alessandro Sisti sono gli sceneggiatori di due brevi intermezzi umoristici al centro dell’albo.
Topolino e le piccole verità della polka del fachiro
Nel primo caso, Salvagnini mette su una gradevole vicenda che ruota attorno al solito cimelio di un altrettanto solito bis-bis di Pippo: un LP che, come effetto collaterale, fa dire
verità altrimenti impronunciabili. Qualcosa di già visto nella
terza storia di Mister Vertigo ma che, declinato in modo diverso e in poche tavole, risulta meno farraginoso e più coinvolgente: un cortocircuito di quartiere con Topolino, Orazio e lo stesso Pippo che, ignari, si arrabattano per ascoltare la
Polka del fachiro.
Da segnalare, oltre ai disegni di un
ispirato Blasco Pisapia,
l’umorismo sugli atroci cappellini di Minni, retaggio di un’antica e forse rassicurante ironia che trova le sue radici nelle strisce di Gottfredson. Idee semplici ed eterne, insomma, ma utilizzate con gran tecnica.
Altrettanta abilità emerge con garbo dalla breve di Sisti disegnata da
Federico Franzò.
Zio Paperone e lo sperpero contagioso è il primo capitolo di una miniserie incentrata sul mondo dei
social media e sulle insidie che la comunicazione digitale, nella sua immediata capacità di produrre fraintendimenti, può comportare. Ed è bene che si recuperi ogni tanto anche questo modo di usare i personaggi Disney per costruire
storie in qualche modo educational che possano portare i lettori a ragionare sulla propria quotidianità ridendo delle sventure, in questo caso, del vecchio papero.
I
social media chiamano a gran voce le tecnologie digitali in un susseguirsi di rimandi tra una storia e l’altra, dato che il nuovo episodio della (non troppo amata) serie
Young Donald Duck ruota attorno a magagne scolastiche con PC e
database. Il registro utilizzato da
Alessandro Ferrari in
Errore di sistema vira però con decisione verso
l’umorismo più genuino, supportato dalla
sapiente regia di Stefano Intini.
Una recitazione da antologia La storia è di per sé molto semplice ma, seguendo una tendenza inaugurata in
Quando il preside è in vacanza,
porta la serie a un livello molto più alto rispetto a quanto letto in passato. I personaggi stessi, a partire dai giovanissimi Paperino e Topolino, sembrano molto più naturali nelle loro azioni e le gag che ne vengono fuori non suonano forzate o fuori luogo:
è Disney puro e semplice pensato per un mercato internazionale, divertente, senza eccessive sovrastrutture e funzionale nella messa in scena.
Il lungo percorso attraverso la riposante
medietas dell’albo si conclude tornando alla più disneyana tra le città italiane, sempre più che celebrata sulle pagine di
Topolino. È infatti
Venezia, in perfetto sincrono con l’apertura della mostra del cinema, a fare da sfondo a una storia di
Roberto Gagnor e
Valerio Held,
Minni gondoliera e la grande regata del doge. La trama è quasi tutta lì, nel titolo, ed è estremamente modulare e rodata nel suo svolgimento anche per via di un
setting tutt’altro che raro da trovare sul settimanale.
Seguendo un percorso legato alla riscoperta di antiche usanze della Serenissima, che va da
Scarpa a
Chendi,
Gagnor muove a mestiere i personaggi, Minni in testa, in un susseguirsi di eventi che per vari motivi rimandano al suo approccio alla storia dell’arte: un contesto storico preciso, arricchito da elementi utili a rendere credibile il tutto come una certa attenzione a luoghi e scorci cittadini, al dialetto, alla società. Nel complesso è
una buona avventura in costume nonostante alcune “gagnorate” nonsense, ormai una cifra stilistica, come il “polenta-break” o l’“hoverpipp”: trovate che possono lasciare…
F4 durante la lettura.
Voto del recensore:
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