Recensione I Grandi Classici Disney 51 Perché i personaggi delle copertine cavazzaniane, da vari anni ormai, debbano indicarsi a vicenda con fare incoraggiante è mistero insoluto ai più. Forse essi soffrono di incertezza identitaria e debbono continuamente ricordarsi di essere se stessi, indicandosi. Chi può dirlo? Certo è che, seppure il
concept appaia spesso bizzarro a causa di questo vizio, il tratto di Re Giorgio mantiene le copertine della testata regina dei mensili ai consueti livelli di freschezza. Ed oggi tocca a Paperino ed una tigre.
Momenti di strabismo indotto. L’occasione è fornita da un passaggio della bella storia di
Bruno Sarda e
Massimo De Vita,
Paperino senza parole, avventura inusualmente presentata da Topolino in veste di regista. Quanto spesso i lavoratori, gli insonni o i quieti d’animo hanno desiderato innocentemente il sacrosanto silenzio? Capita anche a Paperino, che vedrà esaudito il suo desiderio… all’opposto di quel che si aspetta. Segue delirio kinneyan-hubbardiano con Paperino, Paperoga e Malachia, tradotto in Italia come
Paperoga filosofo golosone, di quelli che chi scrive ha imparato ad apprezzare negli anni con gusto crescente, e che svolge la sua funzione reggendo (anche se meno di altre egregie sorelle) all’urto della ripetitività. Un po’ sacrificato il formato delle quattro strisce per pagina entro un contenitore che non gli è mai calzato convenientemente: difetto non da poco per una testata che pesca – e meno male – dal bottino degli albi a grande formato.
La scansione trocaica (breve/lunga) si ripete tre volte prima della sezione Superstar: la coppia detta è seguita da
Topolino e la Regina d’Africa, di
Romano Scarpa, e da
Paperino e la sfida all’ultimo volo, di
Marco Rota. Mai storie furono più diverse. Di ampio respiro geografico e densa di personaggi la prima, urbanissima e incentrata sul pernicioso duo Paperino & vicino la seconda. Gottfredsoniana la prima e barksiana la seconda, verrebbe da dire, tanto più che il Pippo “sedotto” era già stato materia per la penna di Walsh in
Topolino e il deserto del nulla. Per la verità l’analogia regge solo per la storia di Rota, perfetta nel momento in cui si tiene conto che non chiede altro che divertire e anticipare il lettore sulla scia delle sue mille repliche barksiane.
Il punto di non ritorno. Invece, Scarpa mette in campo il trio Topolino/Pippo/Gancetto, senza troppo successo: Gancetto appare e scompare grazie alla possibilità di volare e non contribuisce seriamente alla vicenda se non in un finale un po’ frettoloso; Pippo si rende protagonista di alcuni stralci comici che impallidiscono di fronte allo Scarpa di vent’anni prima, e poi diviene promesso sposo della folle regina di uno staterello africano, Zenobia; Topolino segue la vicenda con un cipiglio unico e continuo, fino a trovare la soluzione per forza di un
deus ex machina. I personaggi episodici (non Zenobia che –
sic! – rivedremo in altre storie quasi tutte di Scarpa) consistono per lo più in tre tecnici cinematografici rapiti per motivazioni posticce e nel ciclico ministro assetato di potere, il quale non manca di ripetere fino allo stremo la sua invidia per Pippo in una quantità disarmante di vignette; senza ovviamente farsi mancare l’espressione allucinata tipica del secondo Scarpa, quanto di più inquietante e scioccante si sia mai prodotto in Disney.
Si sarà un po’ troppo severi con una storia di Scarpa? Non si dovranno forse ricordare i disegni tirati a lucido, il supposto brivido dell’ignoto e dell’esotico, la sana presa di coscienza da parte di Pippo e compagni del fatto che l’Africa non è la terra dei selvaggi – se mai lo è stata? Forse. Però si rimpiange uno Scarpa vivo e coraggioso, sempre pronto alla virata imprevista condita dalla grazia sua impareggiabile, si sente inevitabile il confronto con un’altra storia esotica, un altro, discretissimo personaggio regale femminile:
Kalhoa. E con un’altra storia, questa quasi coeva, che segna forse il testamento avventuroso di Scarpa e si dipana in maniera commovente nel nuovo tempo che l’autore si trovava a vivere, i diabolici anni Ottanta:
L’enigma di Brigaboom. Ma questa – per l’appunto – è un’altra storia.
E a proposito di Brigaboom: Scarpa assegna ad una vignetta su quattro un doppio riquadro contornante. L’intento è quello di replicare l’importanza assegnata alla vignetta finale di ogni striscia nelle
strip-stories, appunto. Un esperimento buffo e non particolarmente efficace forse, che si dispiegherà più sistematicamente con le storie a strisce anni dopo.
L’ombra di
Jerry Siegel, che sembra davvero far capolino nei passaggi più bizzarri della sceneggiatura scarpiana, prende corpo in
Le Giovani Marmotte e il ritorno del Giocattolaio. Storia pienamente siegeliana, sulla quale poco c’è da dire, se non che il Giocattolaio si scatena come non mai dando luogo a beffarde lotte aeree fra mostri meccanici ed iperboli simili. Punto debole il finale, affrettato e calato dal cielo; ma nessuno vorrà mai davvero chiedere a Siegel qualcosa di più.
Segue
Tip e Tap e l’ora legale, veloce
divertissement barossiano. Serie di peripezie urbane rispetto alle quali il lettore ha già l’occhio avvertito dal titolo, e che mette in luce un
Massimo De Vita marcatamente ispirato a Paul Murry, che del resto era uno dei riferimenti del Topolino classico d’oltreoceano.
Una perla fulminante tipicamente martiniana. Ma passiamo alle Superstar: anzitutto
Zio Paperone e la gara sul fiume. E… che si deve dire? È un
Barks orgoglioso di esserlo, tanto basti, e a poco valgono per snaturarlo gli oboli pagati alla promozione di Disneyland; questa è inoltre la storia che sarà ripresa nell’
episodio fluviale della
Saga di Paperon de’ Paperoni.
Paperino e il giubileo del fantastilione (qui in versione integrale) è invece opera di un buon
Martina, con il consueto condimento di equivoci e reindirizzamenti iperbolici, il tutto guidato da un Paperone che viaggia verso il suo avventuroso passato con un animo giocoso e beffardo (stralunato dai disegni di un
Giuseppe Perego ancora in vena) che meriterebbe d’esser visto più spesso in luogo della ormai usuale e indifferenziata nostalgia.
Storia di media fattura quella che segue, su testi di certi Brian Claxton e Bob Bartholomew – non altrimenti noti a chi scrive – e disegnata da un eccellente
Luciano Gatto. Daccapo, anche qui il finale appartiene ad una cerchia nota e ristretta – ma tant’è. Gradevoli – e ben rese ai disegni – le disavventure dei Paperi in terra di… Yukorage.
E a chiudere l’albo
una ben strana e fulminea storia di Carl Barks, assai poco pretenziosa ma impreziosita dalla messa in scena dell’equivoco portante: una banalità, ma di quelle che il maestro dell’Oregon sapeva rendere briose e capaci di destare un bel sorriso.
Infine, un’annotazione importante. Trovate una controparte alla recensione in
un video realizzato dal nostro altissimo artefice, Fabio Del Prete, al soglio Fisbio. Il
The Fisbio Show, finora specializzato in
Topolino e saltuarie incursioni al di fuori, da un paio di uscite ha dedicato attenzione anche alla nostra testata d’elezione.
A risentirci presto dunque: buona lettura dei
Grandi Classici!
Voto del recensore:
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