Recensione I Grandi Classici Disney 55 A volte capita di inciampare.
Nemmeno i migliori sono esenti da questa regola non scritta e, ogni tanto, l’errore bussa alla porta di chiunque. È esattamente quanto accaduto nel numero di luglio 2020 dei
Grandi Classici con ciò che potremmo ribattezzare
l’affaire Rebo, che letto alla francese sembra sufficientemente chic; l’alternativa, più letteraria, potrebbe essere un virtuosistico
Quer pasticciaccio brutto de via Rebolana, ma ci atteniamo ad una più sobria e meno vernacolare francografia. Il fatto in realtà è molto semplice ed è riassumibile in poche parole:
il Rebo di Luciano Bottaro atterra sulla seconda serie del nostro mensile Disney preferito, e fin qui
gaudeamus igitur!, eppure non lo fa con
Paperino e il razzo interplanetario, la prima storia del ciclo, ma con
Paperino e il ritorno di Rebo, il
sequel.
La situazione è stravagante. Non è un caso simile, poniamo, alla
saga bottariana di Nocciola, le cui storie sono tutte abbastanza slegate tra loro, rette dall’unico
refrain di “Pippo che non crede alle streghe”. In quella possibile circostanza si può rendere più spendibile un
topos costruito e reiterato su un personaggio in passato abbastanza ricorrente, o comunque noto al pubblico italiano: l’ordine cronologico non è obbligatorio. Qui si sarebbe trattato, invece, di
presentare adeguatamente a una nuova generazione di lettori una serie molto poco conosciuta, basata sulla reinterpretazione di
un iconico personaggio del fumetto fantascientifico dell’anteguerra, opera esclusiva del suo rapallese (ri)creatore coadiuvato ai testi da Carlo Chendi nel 1960. Una condizione evidentemente peculiare. È vero, si potrà obiettare,
Il razzo interplanetario era già comparso sui
Grandi Classici… ma
nel 2006, quattordici anni fa. E sì, è vero, la storia è stata ristampata anche in una veste editoriale ben più lussuosa e prestigiosa, su
Tesori Disney… ma
nel 2010, dieci anni fa.
Scusi, ci conosciamo?
Riproporre così,
ex abrupto, il grande ritorno di un personaggio che la maggior parte dei lettori più giovani non ha assolutamente presente è quell’inciampo di cui si diceva all’inizio di questa recensione. Per di più
nell’editoriale di Lidia Cannatella si esplicita il fatto che il Razzo «in pratica è il capitolo precedente alla storia che vi apprestate a leggere». Non esattamente quello che ci si aspetterebbe dalla miglior testata dell’edicola disneyana in circolazione al momento. Molto probabilmente ci saranno stati problemi tecnici per reperire e ristampare la prima storia di Rebo, dalla foliazione alla disponibilità degli impianti delle tavole originali, ma questo non possiamo saperlo. Fino all’ultimo l’eventualità che addirittura primo e secondo capitolo della saga di Saturno fossero presenti nello stesso albo – tutto sommato improbabile, ma Disney non insegna (a tradimento) che “i sogni son desideri”? – è stata valutata da qualche sparuto gruppuscolo di lettori forti dei periodici disneyani, scrivente compreso. La
copertina di Giorgio Cavazzano, col suo Rebo autoindicante, sembrava fornire un ulteriore indizio:
il papero robottino in primo piano, protagonista di divertenti siparietti nell’avventura del 1960, parlava da sé.
Insomma, un po’ di amarezza c’è, non si può nascondere. Del resto la politica dei
Grandi Classici si è sempre fatta notare per la lodevolissima attenzione ai particolari: saghe e serie ristampate il più possibile in ordine cronologico (
Reginella, ad esempio, ma anche
Atomino,
C’era una volta nel West… – al momento interrotta –,
Le Tops Stories – elargite col contagocce –, e così via), oppure, nel migliore dei casi, abbiamo goduto di primi capitoli ed eventuali seguiti riuniti nello stesso volumetto. Lo abbiamo visto di recente con la
Cimice Tuff-Tuff nel n. 52: originale barksiano e
sequel bottariano per la prima volta insieme in 18 tavole di elevata comicità e sperimentazione grafica. Si potrà obiettare che in quel caso si è trattato di poche pagine, complessivamente parlando, facili da gestire. Qualche anno fa, però,
Il Dottor Paperus e
Paperino e il seguito della storia (guarda caso, di nuovo Bottaro) sono state riproposte entrambe
nel n. 335 della vecchia collana. Una vera e propria chicca.
Dicesi “continuity”
Così non è andata stavolta, ahinoi, e la sensazione che potrà provare un ragazzino sfogliando l’albo sarà la medesima dei suoi omologhi degli anni Novanta: ritrovarsi il dittatore di Saturno su
Topolino senza conoscere, probabilmente,
Il razzo interplanetario. In una parola, straniante.
Insomma, sembra essere davvero sfortunata la prima apparizione del Rebo disneyano, almeno ultimamente: già annunciata in ristampa sul quarto volume del redivivo
Paperfantasy nel 2018, senza felice esito in una testata che di lì a poco avrebbe riproposto addirittura il poco digeribile (per i canoni odierni)
Mistero di Marte di Pedrocchi, eccoci qui a commentare la seconda sparizione del
Razzo. E se il problema, in fin dei conti, fosse la sorte di un certo automa ordinata dal crudele dittatore di Saturno? D’accordo, a pensar male si fa peccato, come diceva
Colui, però…
Va bene, finiamo questa (pur necessaria, per quanto emozionale) filippica e andiamo avanti.
Il ritorno di Rebo risalta ed è senza dubbio tra le storie migliori ristampate sui
Grandi Classici negli ultimi anni: è Bottaro, lisergico e allucinatissimo quasi all’ennesima potenza, con il suo grande tocco da Maestro nella fase finale di una lunghissima carriera. L’autore si diverte, e pure tanto, contorcendo, gonfiando, allungando e appiattendo i personaggi in gustosissime sequenze e in quadruple graficamente spettacolari. Una
personale rivoluzione stilistica che Bottaro avrebbe rafforzato sulle pagine di
Topolino con le storie prodotte nell’ultimo decennio della sua vita, in totale dialogo con le meravigliose deformazioni e sperimentazioni che, più o meno nello stesso periodo, stava regalando ai lettori del
Giornalino con la saga del
Castello dei sogni, nonché dirette discendenti della sua versione di
Pinocchio e delle serie di
Pon Pon e
Redipicche.
Umorismo bottariano, ne vogliamo ancora! Non andremo oltre:
Luciano Bottaro è stato un genio assoluto del fumetto e andrebbe riscoperto il più possibile, sia per quanto riguarda il suo lavoro coi personaggi Disney, sia per la sua multiforme produzione extradisneyana. Per ora non possiamo fare altro che augurarci di trovare presto le successive storie del ciclo di Saturno contro Paperopoli,
Alla ricerca del papero virtuale e
Paperino e l’invasione di Giove, in cui lo sperimentalismo bottariano raggiunge vette apicali.
Parlando d’altro, l’albo offre
un’ottima sezione Superstar dedicata al sessantesimo anniversario della prima apparizione di
Brigitta MacBridge. La sua storia d’esordio è ristampatissima, certamente, ma è al contempo imprescindibile in questo caso nel trittico (+ uno) delle prime occasioni in cui la romantica papera ha iniziato a dare filo da torcere al suo recalcitrante obiettivo sentimentale.
Abbiamo una scrittura di Paperone che forse è tra le interpretazioni migliori sfoggiate dalla scuola italiana:
Scarpa, nell’
Ultimo balabù, dimostra di conoscere profondamente il carattere di un personaggio che aveva all’epoca appena tredici anni di vita e già tre letture differenti per quanto riguarda la sua caratterizzazione, da Barks a Martina passando per lo stesso Maestro veneziano. Qui Paperone è un vecchio eccentrico con tanti soldi da proteggere dalle fosche ombre di un infausto matrimonio e, al contempo, da spendere e spandere pur di evitare ulteriori, morbose
avances da parte della sua pretendente. Scarpa guarda allo Scrooge McDuck barksiano, ma da esso trae un personaggio se possibile ancor più sfaccettato: il balabù del Borneo, così come il
kaibì, è un nuovo esponente del
bestiario scarpiano ed è qui l’
oggetto magico che dà il via all’azione (già nella memorabile vignetta con Paperone che si fa la barba al mattino), che va trovato nell’intrico pluviale malese, che infine risolve – attraverso l’intervento di Brigitta e dei nipoti – la situazione, lasciando ampio spazio a lati interessanti della
complessa psicologia dell’anziano papero.
Angoscia e suspense Il ratto di Brigitta è invece una commedia degli equivoci condita con un po’ di giallo urbano, memorabile sia per il debutto del cialtronesco
Filo Sganga sia, soprattutto, per le numerose gag escogitate da Scarpa per raccontarci qualcosa in più sulle idiosincrasie paperoniane e sulle sue effettive priorità, affettive e non.
Un vero gentilpapero
Nelle due storie successive Brigitta è in mano ad altri autori:
La pepita Dolly (
Pavese/
Carpi), nella quale la papera sfoggia un notevole becco da piciforme, sfrutta l’eterno palcoscenico della messinscena western per consolidare il rapporto tra i personaggi anche in un contesto fuori dal tempo e dallo spazio della Paperopoli moderna;
Il diario segreto (
fratelli Barosso/
Perego) è invece l’esatto contrario, una storia totalmente calata nella realtà mondana e per certi aspetti materialisticamente superficialotta dei primi anni Sessanta, divisa tra la festa di fidanzamento ufficiale tra Brigitta e Paperone da un lato, e la Hollywood degli sfarzosissimi villoni delle stelle del cinema dall’altro.
Sostanzialmente la panoramica sulle origini della tenace corteggiatrice del favoloso magnate scozzese è l’altra perla di questo albo:
Rebo e le Superstar valgono la spesa per un volume che, evidenti criticità a parte, è comunque molto buono.
Per completare il quadro, la trentina scarsa di pagine rimaste sfigura un po’ con una serie di storielline non memorabili. Al netto di
due autoconclusive da una tavola ciascuna, abbiamo
un Paper Bat brasiliano,
Pippo e Gancio francesi e una simpatica breve dei Barosso disegnata da un giovane
Massimo De Vita,
Topolino e la motomania. Non è tantissimo, specie se paragonato al resto del menù di luglio, ma sono avventure utili per riprendersi dalle montagne russe bottariane e per prepararsi, nella maniera più classica possibile, alla sezione monografica su Brigitta 60.
Voto del recensore:
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