E' con un autentico snaturamento del testo di Carlo Collodi che Walt Disney torna nei cinema per il suo secondo lungometraggio. Pinocchio è un film tecnicamente perfetto sotto ogni aspetto, si fatica a trovare un difetto in quello che risulta essere uno dei massimi manifesti programmatici del modo Disney di intendere il cinema. Pinocchio infatti reinterpreta uno dei classici della nostra letteratura, riforgiando personaggi e tematiche secondo un'estetica tutta nuova, sgombra da ridondanze e arcaismi, ma con una dose massiccia di umorismo. Hanno qui origine molti topos che avrebbero poi spopolato nella produzione Disney anni 50 e 90 come la figura del piccolo comprimario animale, elemento umoristico utile a sdrammatizzare, nonchè figura indispensabile per diversificare il panorama personaggistico (Mushu, Abu, Sebastian), oppure la figura del narratore interno, capace di rivolgersi allo spettatore in qualsiasi momento della narrazione, uscendo dai limiti del racconto (Clopin, Muse). Entrambe queste figure trovano il loro punto d'incontro nel Grillo Parlante (Jiminy Crickett), coscienza di Pinocchio e complice dello spettatore, un caratterista simpaticissimo, che del triste personaggio al quale Collodi aveva fatto fare una brutta fine, non riprende che il nome. Più che un banale moralista, il Grillo è la voce del buon senso, un etica "pratica" che gli deriva dall'arte di arrangiarsi, appresa durante il suo vagabondare.
Anche Pinocchio è completamente diverso dal modello libresco, assolutamente ingenuo e sempre in buona fede, fino a sfiorare l'ottusità. Il personaggio è però reso adorabile dall'ottimo doppiaggio italiano, assolutamente credibile nel suo ruolo di bambino.
Una simile diversità tra il Pinocchio Disney e quello originale deriva infatti dalla filosofia alla base delle due opere. E' chiaro che Walt non condivideva appieno i metodi educativi "dati per buoni" in epoca collodiana. La morale del film, espressa dal Grillo stesso nella canzone principale è infatti la stessa che sarebbe stata di Cenerentola, o di Peter Pan: bisogna credere nei propri sogni, rimanendo bambini interiormente. Un principio che abbraccia l'intera produzione Disneyana ma fondamentalmente estraneo alla cultura nell'ambito della quale nasce il romanzo di Collodi.
Altro elemento che diverrà poi la "regola" è il numero di canzoni presenti: sono cinque infatti i brani musicali e nel film vengono accumulati tutti durante la prima metà, lasciando quindi il finale sgombro da impicci musicali e tutto imperniato sull'azione.
La prima la si sente nei titoli di testa e termina cantata dal Grillo, che da bravo narratore introduce la storia. Si tratta di When You Wish Upon a Star, che tanto successo avrebbe avuto in seguito, da diventare LA canzone Disney per eccellenza.
La tenera Little Wooden Head viene poco dopo cantata da Geppetto, personaggio che nel film gode di una spiccata caratterizzazione, spesso tendente al comico (memorabile la sequenza finale in cui crede che il figlio sia morto e, distratto, cerca di convincerne lo stesso Pinocchio). Ogni personaggio sembra avere un proprio tema, e così ecco che al Grillo tocca una canzone interna al film, Give a Little Whistle e al Gatto e la Volpe, rarissimo esempio di personaggi antropomorfi in un contesto umano, l'allegra Hi-Diddle-Dee-Dee (An Actor's Life for Me). L'ultima delle cinque è proprio la canzone di Pinocchio, cantata davanti a Mangiafuoco durante lo spettacolo dei burattini, la splendida I've Got No Strings.