Rispondo qui all'ottimo intervento di Guglielmo per non scompensare troppo nell'OT.
Imprevedibilità dei dialoghi, e in ispecie della sintassi, "residuo", se vuoi, della imprevedibilità martiniana. Eccentricità, dunque, nella misura in cui non conferma ciò che ci si attende da ciò di più immediato che esista, la parola detta (trama, umori, situazioni, sono tutte strutture più composite). Questo spiazzamento, modesto ma ricercato, direi intelligente (nei casi migliori), rende quello stile più godibile, al mio palato, di altre conciniane successive.
Si badi bene: una simile espressività, e lo si rintraccia talvolta in Martina o Vitaliano, è a volte ostacolo ad altro tipo di ricchezza. Infatti a mio parere questo tipo di imprevedibilità va bene a sostegno di una trama vivida ma non di per sé ad ogni momento spiazzante. Perciò, in Scarpa o in Casty, una certa linearità espressiva è comprensibile. Ma proprio perché sono altri fattori a rendere non lineare, imprevedibile, il racconto.
È proprio del fumetto disneyano costruirsi su molte storie brevi. È proprio di molte storie brevi avere una trama non eccezionalmente forte (con sostanziose eccezioni). Ecco perché ritengo proprio di parte consistente ed essenziale del fumetto disneyano questo tipo di imprevedibilità.
Noterai che uso "lineare" in connotazioni negative. Ciò è dovuto al tipo di argomentazione che sto conducendo. Un esempio principe in senso opposto è Barks. Le traduzioni italiane di Barks (non così, in un certo senso, l'originale) sono quanto di più piano possa esserci. Eppure sono pienamente al servizio della storia, perché non è necessario un sostegno di quel tipo (viceversa, sarebbe piuttosto balordo, e toglierebbe quella certa quale "magia sospensiva" tipica di quelle storie). Nego essere questo il caso per le storie nostrane medie degli anni Ottanta: mancando un'imprevedibilità di quel tipo, e mancando tutte le altre, ci si ferma al "racconto di un'idea": uno ha un'idea, la mette giù nella maniera più diretta possibile, e si crea il canone.
Sono d'accordo... a metà.
Talvolta l'
imprevedibile implica mancanza di
originale, e in Concina questo è un atteggiamento frequentissimo. Mi spiego: al netto di un approccio alieno al canone vi è sempre stato (secondo la mia visione) un focalizzarsi anche legittimo su di un oggetto "canonico". Non mi riferisco, ovvio, ai semplici personaggi che per "regole del gioco" devono rimanere inalterati, quantomeno perseguire i loro istinti di nascita. Il
contesto cambia, invece, e in quanto elemento isolato dagli altri (forse proprio perché riesce a contenerli) necessita di un forte sviluppo autoriale. Questo, a prescindere che la storia sia unica (
caso dei furti impossibili) o che alimenti un ciclo (
macchina del tempo), in quanto ciò che acquisisce valore non è la sua ripetizione ma l'impatto primigenio in chi lo legge e, prima ancora, in chi lo idea e lo mette su carta. Tale contesto in Concina fatica ad assumere contorni precisi. Al contrario della forma, eccentrica, spiazzante, martiniana, come tu dici, esso ne tende ad affievolire i toni, la riconduce (meglio) a un elemento di base che già prima di essa ne aveva modellato i presupposti. Archetipo? Non del tutto, poiché egli è Barks e da lui a Concina
ne passa. Azzarderei un Catalano. Classicheggiante, lineare, eppure innovatore quel tanto nella misurazione della lingua (forse, il primo vero promotore del Disney nostrano "euforico", e tu sai a cosa mi riferisco).
L'imprevedibile della forma, insomma, è contrapposto al "canonico" del contesto che in quanto tale è ordinario, barks-gottfredsoniano a seconda dell'universo, comunque
attendibile. E sinceramente non ne ho mai rilevato buoni frutti. Un buon esempio da contrapporre, in tal caso, è Martina che - non a caso - Barks lo traduceva. Gli "sfondi" di Martina sono steampunk, per certi versi, e procedono di pari passo con l'assurdità del pretesto. Essi spesso sono scabri, tetri, mal abbozzati eppure riescono sempre a richiamare il peso della Parola, ne costituiscono un incentivo. Ecco, questo incentivo è probabilmente "quello che manca" nel Concina anni'80, come più in generale nell'arco dell'intera sua produzione: se la storia dello spirito Disney è la ricerca continua di equilibrio fra innovazione e tradizione, Concina è sicuramente colui che ci è andato più vicino (nell'epoca suddetta), fallendo giusto nel distribuirne tali "valori". Cosa che invece un Casty, ad esempio, ha saputo risolvere in tutt'altri tempi (e con estro scarpiano rinnovato): come per ogni
polipone mellifluo faceva sempre capolino
la copertina di un fumetto, così anche in ambito linguistico 1 gag = 1 striscia di 4 vignette con annessi tutte le interiezioni del caso (e una costruzione della frase quasi più "martiniana" della traduzione stessa del primissimo
Topolino giornale (Gott. docet)).
Trovo molto frequente, infine, una discreta dose di autosostentamento nella scrittura di Concina, ma è una peculiarità differente dall'analoga martinesca. Non è un caso che al centro della struttura del fu Bruno vi sia, fra gli altri, la consequenzialità e l'equilibrio fra i caratteri che per Martina appaiono solo per metà: svolgimento disomogeneo al netto di un impensata (e talvolta ancora incompresa) stabilità fra chi lo porta a compimento. Uno stimolo che Concina stesso seminava e seminava in ogni modo possibile, talvolta inventandoselo (le storie a bivi sono incluse nel biglietto) o espandendolo (
tempus fugit... di nuovo!), pur a parer mio senza incisività. La quale, se mancante, lascia nudo l'imprevedibile senza un perché o un percome che ne determini l'"euforia" (cosa che invece un Siegel o chessò lo stesso Scarpa avevano più a cuore in certo senso, chi abusandone (pur volutamente) chi centellinandola ed evitandone sprechi sostanziali, comunque fisiologici. Ma mi rendo conto che si tratti di tutt'altra branca di paragone stilistico).
Oh, poi buttalo via eh! (cit.)