Anch'io mi riconosco in certe sue piccole fisime, ma in generale parlavo della loro situazione sociale generale. Calcare e i suoi amici di fatto vivono di espedienti, contenti di farlo e che persistono nel farlo, senza modificare le cose. L'alternativa è mostrare l'arrogante ricco che lavora in banca, decisamente facile come divisione, ma anche decisamente avvilente.
Un conto sono le manie quotidiane, un conto è il lasciarsi andare all'apatia civile, rifugiandosi in certe scaramuccie dal molto clamore e dallo scarso effetto.
Infine, concordo con V nel trovarmi un po' perplessa nel ritratto generazionale. Se Zero ha un difetto (anche sul blog), forse è proprio in quel suo esagerare nell'autocompiangimento (sì, ho scritto bene) generazionale.
Forse perché non faccio parte della sua generazione (mi par di capire che ho 10-14 anni più di lui), forse perché non ho mai percepito in maniera molto netta il far parte di una generazione, ma sembra quasi che il "lasciarsi andare all'apatia civile", espressione magistralmente usata da V, sia un espediente di cui abusa. Come se intendesse che non esiste alternativa, sei di quella generazione e non puoi essere diverso. Come se l'appartenere a quella generazione ti identificasse più di ogni altro aspetto della tua esistenza. Ecco, è in questo che non riesco a riconoscermi. Lo trovo un po' deprimente e lontano dalla verità.
Allora, a mio avviso si può rispondere in due modi a queste osservazioni.
Il primo è "storicizzante", il secondo immerso nel tempo presente.
"Storicizzante" vuol dire che un ritratto generazionale è una cosa che è sempre esistita, anche se al 90% per quanto riguarda i ragazzini, gli adolescenti e i giovani. Brigitta dice di non essersi mai identificata in uno slot generazionale, e ovviamente ci sta, ma altrettanto ovviamente per ogni decennio ci sono stati qui 2-3 "movimenti" in cui i giovani si riconoscevano e ne facevano parte, aderendo ad un certo tipo di musica, abbigliamento ecc, non c'è bisogno che ve lo dica io. I contorni che assumevano le varie caratteristiche erano figli del loro tempo, immersi nel contesto storico e geografico di quel presente.
Arriviamo allora all'attualità, a Zerocalcare. Il buon Michele dovrebbe avere sui 28-30 anni se ben ricordo, romano, classe sociale proletaria, un ragazzo che si univa ai centri sociali per fare manifestazioni in piazza, dal lavoro precario (almeno fino a 1 anno e mezzo fa, prima del successo, anche se comunque se fai fumetti precario/free lance lo sei sempre). Con questo ritratto, in una situazione come quella italiana attuale, mi pare del tutto naturale che la realtà che ci racconta l'autore attraverso i libri e le vignette sul blog sia quella di giovani che vivono di espedienti, come dice V, che non guardano al futuro con speranza perché speranza non può essercene, che non possono pensare ad una stabilità economica, famigliare o lavorativa perché tutto intorno gli dice che non è proprio cosa.
Il punto importante è questo: Zero ci racconta quella realtà perché è la SUA realtà. Ma poi, con la diffusione dei suoi lavori, si scopre che non è solo la sua. E no, non penso solo dal punto di vista delle passioni nerd, del fatto che guardava
Fringe e
The Walking Dead, legge fumetti, vede il mondo filtrato dai cartoni animati ann '80 e cita
Star Wars. Certo, i riferimenti nerd sono buona parte del suo successo, così come le fisime e la nostalgia a breve termine. Ma secondo me molti si riconoscono anche nella situazione sociale che racconta e che V e Brigitta, che può effettivamente essere condivisibile da molti giovani italiani degli anni '10. Non solo la condizione, ma anche le reazioni che si hanno in risposta, cioè l'indolenza, il compiangersi e il "lasciarsi andare all'apatia civile". Il punto è che Zero non vuole dare lezioni o essere una guida, un faro ispiratore. Non ci dice che questo atteggiamento è giusto e da perseguire. Ci dice che è quello che ha sposato, e il successo che le sue storie hanno ci dice che in qualche modo molti altri della sua generazione lo hanno fatto. Lui si limita a fotografare una realtà, in modo divertente, senza dare giudizi di sorta. Certo, tende a darle una connotazione positiva perché ci si ritrova, ma non ha la pretesa di dire che va bene così. Dice che va così, punto.
Per questo ritengo che le storie di Zero (ma anche le canzoni delle Luci della Centrale Elettrica, per dire) sono più che un fenomeno di costume, una nerdata o qualcosa di divertente, ma sono anche un ritratto sociale piuttosto centrato, che va più a fondo di quanto non facciano i dati Istat sulla disoccupazione giovanile che ci snocciolano i telegiornali.
Non sono per niente d'accordo con chi ha preferito il primo libro. Il secondo è più unitario, più uniforme, più leggibile. E l'elemento thriller, innegabile, è ben gestito. Non sono d'accordo con Bramo neanche quando definisce la causa del "polpo alla gola" una inutile paranoia. La maggior parte delle fisime di Zero (quelle di cui parla nel blog) sono inutili paranoie, ma nella economia del racconto, così come narrato nel libro, il "tradimento infantile" che lui si porta dietro è tutt'altro che una inutile paranoia.
E' vero, ma un conto è quando sviluppa la paranoia fino a degli eccessi assurdissimi nell'arco di una storiella del blog, un altro è quando la tiri per un libri di oltre 200 pagine svolgendola attraverso 3 fasi della vita del protagonista. Prendendo una "striscia" recente, quella delle pile che si scaricano e dell'indolenza nell'andare a comprarne di nuove: è perfetta nell'idea iniziale e nello svolgimento, ma prova a farla diventare una storia lunga 100 pagine e lo stratagemma iniziale mostrerà la corda, perché sulla lunghezza non regge più. A meno di non essere molto bravo e inserire altri elementi, cosa che nel
Polpo alla Gola l'autore fa, ma in modo a mio avviso non abbastanza convincete da rendere l'input abbastanza solido. Poi ovvio che sia più unitario della
Profezia dell'Armadillo, visto che lì erano storielle autoconclusive legate da un sottile filo rosso. Ma quella formula secondo me ha trovato un equilibrio di gran lunga migliore tra due anime narrative, rispetto al racconto unitario del secondo libro. Che, comunque, mi è piaciuto molto.
Questione risate: non è che iniziamo col discorso alla Ortolani, vero?
Ad ogni modo, a me hanno fatto ridere entrambi i volumi: certo, la componente seria si sente, ma l'autore non rinuncia mai alla sua comicità. Inoltre, sarò io, ma colgo una vena malinconica già in alcune delle storielle del blog, quindi...