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La scuola italiana e i suoi modelli

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    La scuola italiana e i suoi modelli
    Martedì 15 Mar 2016, 17:50:01
    Un messaggio dell'egregio Duck Fener nella discussione "Nuove testate Disney" mi ha riportato alla mente una mia vecchia riflessione, su cui magari anche voi avete qualcosa da dire. :)
    Si parla spesso di Gottfredson e Barks come dei modelli per i primi (ma anche i secondi e i terzi) Disney Italiani. Volevo soffermarmi un po' su questo analizzando l'elaborazione (armonica o divergente) di quei modelli da parte della scuola classica italiana fino a diventare anch'essa un modello per le attuali generazioni di scrittori.

    Anzitutto bisogna pensare alla scuola italiana come autonoma e non "a rimorchio". Soprattutto all'estero (ma con un po' di complessi anche in patria) si tende a pensare ai primi Disney italiani come una banda di "bravi ragazzi" con tanta volontà ma in fondo... italiani, provincialotti e ripetitivi. Da questa visione (favorita da certi nordici assolutisti che assegnano voti insufficienti a Zio Paperone e il ricupero... armato; ma questa è un'altra storia...) si salvano Romano Scarpa (del resto "non già il primo dei Disney italiani, ma l'ultimo dei Disney americani") e Rodolfo Cimino (perché ha scritto Reginella e i Racconti intorno al fuoco... come se questo fosse l'unico e principale merito di Rodolfo!).
    Un esempio emblematico del passaggio dai modelli alle storie, testimone sia di un assorbimento che di uno sviluppo autonomo, è rappresentato dall'espressività dei personaggi. Mi spiego.
    Come fatto notare altrove da PORTAMANTELLO (se leggete bene quel post capirete perfettamente gran parte del mio discorso), Carl Barks è tutt'altro che uno sceneggiatore "dolce". E meno male! Altrimenti sì che Uack! non lo comprerebbe nessuno. Fateci caso: se Paperone in una vignetta è tranquillo, potete star certi che due o tre vignette dopo sarà trafelato o in preda all'ansia, borbottando "Quei Bassotti hanno escogitato un'altra delle loro pensate!" (attenzione ai grassetti in Barks: riescono a dare un tocco del tutto speciale al discorso, non so bene come!). Poi c'è il leggendario Paperone "carogna", quello minaccioso dei suoi momenti peggiori, quello depresso (con gli arti scomposti e accasciato a terra), etc. etc.. Insomma, tutto fuorché personaggi apollinei, soprattutto nei caratteri e nelle azioni le più variegate.
    Sono soprattutto i disegni a conferire alle storie quel senso di leggerezza, ad amalgamare (quello sì, e in maniera miracolosa) le varie estremità e a farle scorrere con quella eleganza incredibile.

    Il frequente scostamento da un canone scorretto qual è quello della "dolcezza" del fumetto Disney, dell'uscire dalla lettura come dalla bambagia e magari con una lacrimuccia (donrosiani attenti!) è a mio parere ontologicamente determinato già in Barks. Attenzione, dolcezza e delicatezza ci sono, ma vere, non "diffuse", e per questo tanto più memorabili: la celebre Scavatrice, il pudicissimo rossore con Doretta (spiacente, per me Doretta è e sarà sempre quella lì), e, ancora meno marcata ma a mio personale parere indimenticabile, la scena finale di "Only a poor old man".

    La scuola italiana, a mio parere, questo messaggio l'ha colto in pieno, come quella brasiliana, per dire, ha colto in pieno l'esuberanza e il farsi trasportare da voli pindarici. Ecco che le storie dei primi Disney italiani, Guido Martina, Romano Scarpa e Carlo Chendi, hanno già quel carattere ardito, anti-ipocrita, mai fintamente "infantile" (come se ai bambini piacesse essere trattati come scemi). Scarpa ad esempio declina questa ispirazione nel suo stile "tutto azione", in cui i Paperi si muovono da un capo all'altro del mondo dando sfogo a tutta la gamma delle emozioni ed espressioni. Trovo barksianissima, e grandiosa, Zio Paperone e le lenticchie di Babilonia. Daccapo, il finale è giustamente celebratissimo (il miglior finale di una storia Disney? Non improbabile), ma tutto il resto è a mio parere altrettanto solido e cruciale.
    Guido Martina, al di là della solita vulgata Paperone carogna, quelli non sono i personaggi Disney (in parte è vero), veggogna, sviluppa questo discorso con una energia che forse (insieme a quella di Scarpa) è davvero il motore che impedisce al gusto per lo stucchevole di imporsi nella produzione italiana. Gusto per lo stucchevole che, badate bene, non è stato inventato negli anni Ottanta, ma esiste da sempre, complice la banalizzazione dei grandi lavori d'animazione, e riscontrabile in tante brevi scemotte americane dell'epoca.
    Carlo Chendi, dal canto suo, sviluppa il discorso in un altro senso: i suoi ritmi sono strani, ambigui, sorprendenti (e deliranti talvolta) ma concorrono misteriosamente a creare quella stessa "leggerezza forte" di stampo barksiano.

    Ecco, per farla breve, io credo che l'esigenza di una storia "forte", di personaggi "forti", capaci (storia e personaggi) di spaziare su tutta la gamma dell'umano (anche il meno rassicurante), la necessità di esplorare fino in fondo quello che un fumetto può dire sia stata catalizzata in maniera difficilmente eguagliabile dalla "scuola italiana". In un certo senso la "ortodossia barksiana" della scuola danese (quella maggioritaria, di cui un po' ci lamentiamo) in realtà sia al contrario un po' traditrice dell'ispirazione dei Maestri, perdendo in alcuni casi quella forza a 360 gradi che la prima linea italiana ha saputo portare avanti con risultati che fanno a gara con gli originali. Di tenpagers validissimi (contando la conversione dovuta al minor numero di vignette per pagina) ne abbiamo avuti: Roberto Catalano, Osvaldo Pavese, per fare due nomi letteralmente a caso, e oggi Enrico Faccini.
    Dovremme solo ricordarceli e (ri)gustarceli. ;)

    La riflessione è tutt'altro che finita (ne ho sviluppato solo un esempio), ma lo spazio per un post di lunghezza umana sì (da un pezzo). Quindi dite la vostra, e vi prometto di dire ancora la mia (se volete)!
    « Ultima modifica: Martedì 15 Mar 2016, 18:08:07 da A.Basettoni »

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      Re: La scuola italiana e i suoi modelli
      Risposta #1: Martedì 15 Mar 2016, 19:30:27
      Spunto interessantissimo e con cui concordo appieno. Sicuramente la scuola italiana è debitrice a quella americana, ma d'altronde la fonte era in USA ed era difficile staccarsene. Eppure già dai primi vagiti, ecco esplodere una Disney italiana che più che andare a pescare da Barks, ripropone fieramente quelle che erano le sue radici (i fumetti d'avventura del Ventennio ma anche il filone più "artistico" in cui si inseriva Bottaro). Basta pensare ad un tratto scomodo come quello del mio amatissimo Perego: cosa ha a che fare con, che so, Barks? Nulla. Ripropone in un contesto nuovo quello che è una scuola specificatamente italiana, del tratto spezzato, sottile, che non concede nulla ad una finta armonia. Martina fa lo stesso, però per quanto riguarda la scrittura. Alla fin fine, prima di imbarcarmi in elucubrazioni troppo ardite, direi che il lavoro fatto da Martina, Chendi, Scarpa, Bottaro, Bioletto (per quanto il suo lavoro sia limitato a una sola storia) ha aperto un orizzonte che è lo stesso sul quale si muovono gli autori odierni: uno spazio che è insieme innovativo (penso anche solo alle decine di personaggi inventati) ma anche capace di flirtare con la grande scuola americana (citazioni, riprese) senza per questo svilirsi. Un merito che più di tutti va a Martina (italianizzatore per eccellenza di un fumetto straniero ed estraneo, altrimenti) e a Scarpa (punto di contatto tra noi e gli USA) in primis.
      Ahimè! Così finisce una grande missione di cultura e di civiltà!

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        Re: La scuola italiana e i suoi modelli
        Risposta #2: Martedì 15 Mar 2016, 19:35:26
        Bioletto (per quanto il suo lavoro sia limitato a una sola storia)

        Tre storie, con Cobra bianco e Grilli atomici: se non hai letto I grilli atomici cerca di recuperarla, è davvero delirante! ;)

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          Re: La scuola italiana e i suoi modelli
          Risposta #3: Martedì 15 Mar 2016, 20:38:31

          Tre storie, con Cobra bianco e Grilli atomici: se non hai letto I grilli atomici cerca di recuperarla, è davvero delirante! ;)

          Grilli atomici eccome, ma non sapevo fosse sua! Spero, comunque, che un dettaglio non abbia inficiato il mio intervento
          Ahimè! Così finisce una grande missione di cultura e di civiltà!

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            Risposta #4: Martedì 15 Mar 2016, 21:45:05

            Grilli atomici eccome, ma non sapevo fosse sua! Spero, comunque, che un dettaglio non abbia inficiato il mio intervento
            Beh, non direi proprio!
            Anzi a me personalmente fa piacere che nuovi iscritti (tu, Monkey_Feyerabend, per esempio) dimostrino interesse per queste questioni; temo sempre di parlare un po' a vuoto, e me ne spiacerebbe perché è sintomo di demenza senile (a ventun anni, preoccupante). ;D


            Spunto che tiri fuori e su cui conviene soffermarsi (benché avessi in mente preponderantemente i modelli prettamente disneyani) è l'eredità, dall'altra parte, strettamente italiana (del resto Federico Pedrocchi, il "primissimo Disney italiano", era stato una colonna del fumetto anteguerra). Non ne so molto, ma Special Mongo è certamente informato. En passant, anni fa sentii in radio di un libro molto interessante, Eccetto Topolino, in riferimento ad una presunta (?) frase di Mussolini: il MinCulPop, forse su sua diretta indicazione, avrebbe proibito la pubblicazione dei fumetto d'Oltreoceano, eccetto Topolino. (E sui contatti fra Italia e industria -anche d'intrattenimento- americana è stato scritto molto: la frase non è dunque così inverosimile).
            Ma non è il caso di partire per la tangente. ;)
            « Ultima modifica: Martedì 15 Mar 2016, 21:46:28 da A.Basettoni »

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              Risposta #5: Martedì 15 Mar 2016, 22:57:47
              Beh, non direi proprio!
              Anzi a me personalmente fa piacere che nuovi iscritti (tu, Monkey_Feyerabend, per esempio) dimostrino interesse per queste questioni; temo sempre di parlare un po' a vuoto, e me ne spiacerebbe perché è sintomo di demenza senile (a ventun anni, preoccupante). ;D


              Spunto che tiri fuori e su cui conviene soffermarsi (benché avessi in mente preponderantemente i modelli prettamente disneyani) è l'eredità, dall'altra parte, strettamente italiana (del resto Federico Pedrocchi, il "primissimo Disney italiano", era stato una colonna del fumetto anteguerra). Non ne so molto, ma Special Mongo è certamente informato. En passant, anni fa sentii in radio di un libro molto interessante, Eccetto Topolino, in riferimento ad una presunta (?) frase di Mussolini: il MinCulPop, forse su sua diretta indicazione, avrebbe proibito la pubblicazione dei fumetto d'Oltreoceano, eccetto Topolino. (E sui contatti fra Italia e industria -anche d'intrattenimento- americana è stato scritto molto: la frase non è dunque così inverosimile).
              Ma non è il caso di partire per la tangente. ;)

              Tutta la produzione italiana degli anni '50 e primi '60 deve tantissimo al fumetto d'anteguerra. Il tratto di Galeppini è preso dritto dritto da giornali quali L'Intrepido, per fare un esempio, ma anche in Bottaro io vedo riferimenti a quel disegno geometrico e quasi cubista di alcuni fumetti che erano sul Corriere dei Piccoli. Il tratto di Perego (lo sbandiererò fino alla morte) è chiaramente debitore alle stesse fonti e a quell'attitudine al tratto secco che andava tanto di moda sotto il fascismo.

              Per quanto io sia dichiaratamente antifascista, è indubbio che il merito dell'esplosione della scuola Disney italiana vada anche alle politiche di regime. Nel senso che il forzare l'autarchia persino nei fumetti aveva portato allo sviluppo di quella che era una generazione di fumettisti e scrittori che avevano dovuto sviluppare le proprie peculiarità al di fuori del circuito internazionale, limitandosi a prendere qualche spunto qua e la, e con loro la generazione di quelli che li leggevano e avrebbero poi preso in mano a loro volta penne e pennelli. Un Martina, ad esempio, così lontano dagli standard disneiani, così contorto e complesso (lo è anche Barks, ma in maniera completamente diversa, il suo PdP è un personaggio agitato, anche spregiudicato e severo ma capace di aprirsi, il PdP di Martina è -non sempre e non piattamente- un incarnazione della miseria umana), ha potuto svilupparsi anche perchè mancava la pesante tutela e ombra di una scuola come quella americana.
              Ahimè! Così finisce una grande missione di cultura e di civiltà!

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                Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                Risposta #6: Mercoledì 16 Mar 2016, 16:40:19
                CUT

                Riflessione interessante. Galleppini, che citi, ha avuto una influenza fortissima sul tratto avventuroso della seconda metà del Novecento e non solo: un tratto snello e proporzionato (nel suo periodo migliore) dichiaratamente influenzato da modelli oltreoceanici ma già con una forte impronta autoriale (a posteriori nazionale, "di scuola" appunto). E del resto se si leggono i primi cinquanta numeri di Tex si può notare quanto lo stile di Galep cambi, si faccia più accurato e coerente (diciamolo, nei primi numeri era davvero sommario).

                Va detto inoltre che i primi disegnatori Disney, al contrario di Martina che aveva già la sua quarantina e più) sono quasi tutti giovanissimi: Scarpa, Carpi, Chierchini, Bottaro, Gatto annoverano le prove Disney fra le loro prime (se non le prime in assoluto) esperienze fumettistiche.
                Quindi in un certo senso va notato che la scuola italiana, sotto l'aspetto grafico, ha da un lato la necessità di riprendere vigorosamente i modelli barksiani e gottfrdsoniani (non avendo l'autorità e l'esperienza -né ovviamente le motivazioni- per una svolta troppo personale), e dall'altro la volontà giovanile di portare quei modelli alle conseguenze più interessanti e variegate.
                Il risvolto (secondo me) negativo ma inevitabile è che la produzione dei primissimi anni è, da un punto di vista grafico, decisamente inferiore a quella della fine Anni Cinquanta-Anni Sessanta, con Bottaro e Carpi già alla prima maturità artistica. Scarpa, a mio avviso, è forse quello che per primo riesce a trovare uno stile forte ed autonomo.
                Discorso a parte per Giuseppe Perego (il cui percorso assume ai miei occhi l'aspetto di un progressivo declino), non in fasce alle sue prime prove disneyane (più grande di un decennio rispetto agli altri), e già "consolidato" in storie come La scuola modello o Il fantasma raffreddato (fra le sue prove più accurate).
                E discorso a parte anche per altri due non giovanissimi, Angelo Bioletto (forse il più anteguerra dei disneyani postbellici), celebre per l'Inferno di Topolino, sempre un po' distorto e aggressivo nel tratto (si pensi ai Grilli Atomici), e Rino Anzi, "meteora" che ha lasciato fra le prove più sconclusionate della storia del disegno Disney.

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                PolliceSu
                  Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                  Risposta #7: Mercoledì 16 Mar 2016, 16:53:17
                  Non ne so molto, ma Special Mongo è certamente informato.

                  Ma non solo io, direi! Ai tempi quasi tutti gli utenti del forum acquistarono il libro Eccetto Topolino. Che lo lessero è un altro paio di maniche, perché so di gente che non vuole addentrarvisi per la pesantezza, ma la maggior parte degli acquirenti lo ha letto, sì.
                  Io personalmente lo leggo in media una volta all'anno, per memorizzare. E' un testo fondamentale la cui realizzazione sarebbe dovuta avvenire 50 anni fa: un tizio acquistò da un macero l'archivio del corrispondente italiano di Hearst, Guglielmo Emanuel. Da lì poi è venuta tutta la ricostruzione storica puntigliosa di Sergio Lama (il tizio che gestisce il GAF), con la collaborazione di Fabio Gadducci e Leonardo Gori. Prima, i ricordi su un diktat che proibiva tutti i fumetti tranne Topolino (e Braccio di Ferro) era ammantata da un'aura di nebulosità nei ricordi di chi aveva vissuto in quell'epoca, e gli aneddoti poco plausibili abbondavano. Ma ora per fortuna non è così. Il libro te lo consiglio.
                  L'argomento del topic lo considero ottimo, la mia filosofia di fruizione è: il presente vola via, le radici sono nel passato. Ci rileggeremo qui dunque!
                  « Ultima modifica: Mercoledì 16 Mar 2016, 16:54:56 da Sam_Spade »
                  Disney Comic Guide - La guida ai fumetti Disney: https://disneycomicguide.wordpress.com/


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                    Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                    Risposta #8: Mercoledì 16 Mar 2016, 21:44:03
                    Bel topic, bravi tutti!

                    Visto che il Dominatore mi invoca, do il mio contributo. Dovrei limitarmi a leggere, visto che di Disney italico vecchio e nuovo sono capra ignorantissima. Ma magari proprio quale capra posso apportare qualcosa. Vediamo.

                    Prima di tutto, mettiamola in questi termini: potete fare finta che io sia un lettore americano. Qualche anno fa, tipo a ventisette anni credo, volendo provare ad avvicinarmi seriamente al fumetto umoristico, decisi di riprendere Gottfredson, il primo amore della mia vita di lettore. Non leggevo fumetto Disney dall'infanzia, fatta eccezione per tentativi infruttuosi di riprendere Scarpa o di iniziare Barks fatti intorno ai diciannove anni credo. Negli ultimi anni mi sono abbuffato di Gott, poi di Rosa, poi di Barks (e sono contento del fatto di non aver ancora letto tutto di questi miei tre miti!). Da meno di un anno ho iniziato a recuperare un po' di materiale italiano, per farmi un'idea (è il motivo per cui mi dovete sopportare adesso in questi lidi, mi servite ;D ). Non che non mi fosse capitato per le mani in passato un Casty o un Faraci, sia chiaro, ma solo adesso li sto leggendo con una certa attenzione.

                    Ora, forse generalizzerò un po' troppo quella che è un'esperienza personale, ma voglio sbilanciarmi: vi assicuro che un lettore abituato ai maestri americani prova un forte senso di spaesamento con gli autori italiani (anche se da piccolo leggeva il topo con le storie di Panaro e Cimino).
                    Il fumetto Disney italiano è una cosa quasi completamente differente da quello dei fondatori ed epigoni americani.

                    Mi ritrovo pienamente in quello che dice il Dominatore a inizio topic. Ma secondo me si è un po' fuori pista quando si parla di cose tipo livelli di emotività o cinismo di questo o quel personaggio, di questo o quell'autore, o di quanto uno sia duro o dolce.
                    La mia chiave di lettura è invece la messa in scena (come sapete detta in ambito fumettistico assai impropriamente sceneggiatura, prendendo in prestito un termine dal teatro e dal cinema, ma in malo modo, visto che lo sceneggiatore di fumetti fa anche e soprattutto la regia della storia).
                    Tutto il resto, trama, tematiche, doppie letture, persino il disegno, tutto viene dopo (pur essendo importante, ovvio). La messa in scena è la sintassi del linguaggio fumetto. Quando narri il grosso sta nel modo in cui lo narri.

                    Ora, da questo punto qualsiasi autore Disney italiano che io abbia letto è lontano anni luce dagli americani, Barks in particolare modo. È inutile stare a sottolineare che Rosa fa lo strappalacrime mentre Barks e gli italiani no: Rosa resterà sempre più prossimo in termini di strutturazione della narrazione a Barks di qualsiasi italiano. E si noti che prendo ad esempio Rosa, che con il suo umorismo di derivazione underground stile Mad Magazine è il meno barksiano degli americani/nordeurpei.

                    Gli italiani hanno una coerenza narrativa tutta loro, e ciascuno la sua.
                    Cimino per esempio ha una messa in scena solida, ma la sua narrazione è lenta e un po' didascalica.
                    Casty ha un ritmo discreto ma la sua narrazione è assai (troppo per me) didascalica.
                    Martina pare non avere alcun controllo del mezzo fumetto, specie agli inizi, si muove come un cane sciolto: a volte si dilunga troppo, a volte vorresti si fermasse un secondo e invece tira via (vi giuro, Martina per uno che viene dalla lettura di Barks e simili è uno shock...).
                    Scarpa inizia la carriera alla Walsh (vedi Tapioco), ma sviluppa velocemente uno stile personale abbastanza simpatico, un po' infantile in certi passaggi (parlo sempre di messa in scena, di composizione della tavola), ma sicuramente più accattivante dei contemporanei.
                    Anche se mi riservo di leggere un po' di Chendi nei prossimi anni; da quelle due o tre storie sue che conosco lui  mi pare potenzialmente il "meno italiano" della vecchia guardia di italiani.

                     In generale quello che mi colpisce degli italiani è la poca verve nella regia: mai a piazzare lì qualche guizzo nella messa in scena, nel passaggio da una vignetta all'altra, o nella composizione della tavola. Uno non si aspetta chissà che, sia chiaro, è fumetto mainstream con i suoi paradigmi specifici.
                    Fanno eccezione Artibani, col suo stile mutuato dall'animazione, e Faraci, l'unico ad avere un controllo del mezzo fumetto a livelli rilevantissimi, piaccia o meno quel che fa (per quanto mi riguarda era il mio preferito a dieci anni, e lo è ora che ho ripreso a leggerlo).

                    Una cosetta en passant. State a festeggiare i venti anni di PK. Vi siete resi conti che PK fotografa il momento in cui, complice qualche caporedattore più avveduto della media o forse tempi propizi, la giovane generazione di sceneggiatori e disegnatori forza la mano e inizia a iniettare nel fumetto Disney roba tipo Moore, Miller, Moebius, e tanti altri?

                    Comunque le ragioni di questo stato di cose non le conosco. Forse semplicemente il fumetto Disney nostrano ha le sue radici (di messa in scena) nel fumetto italiano pre-guerra, tutto qui.

                    Vabbe', magari possiamo fare qualche esempio concreto. Ma preferisco non intervenire troppo in questo topic. Meglio leggere voi che ne sapete di più di questi maledetti italiani.  ;D
                    « Ultima modifica: Giovedì 17 Mar 2016, 10:47:41 da Monkey_Feyerabend »

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                      Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                      Risposta #9: Mercoledì 16 Mar 2016, 22:08:52
                      Ecco, un lettore abituato ai maestri americani prova un forte senso di spaesamento con gli autori italiani (anche se da piccolo leggeva il topo con le storie di panaro e cimino).

                      Ho provato anch'io le stesse identiche sensazioni.
                      Sono cresciuto nel primo periodo principalmente con Topolino, talvolta con Paperinik e altri supereroi, Paper Fantasy e Topomistery, quindi tutto sommato sono partito con il fumetto Disney italiano.
                      Crescendo però ho cominciato ad avvicinarmi ad altre scuole, merito di Zio Paperone, rivista a cui sono ancora molto legato. Galeotto fu l'acquisto della Paperdinastia, da cui poi la scoperta e l'approfondimento di Barks, Vicar, Branca, Strobl, Murray, Don Rosa e così via. Insomma, ad un certo punto, nell'età dell'adolescenza, mi sono allontanato dal fumetto Disney italiano, salvo comprare, di tanto in tanto, un Topolino o un Vatt in edicola, il che non mi ha mai del tutto alienato dalla produzione nostrana odierna, ma lo ha fatto con quella più vecchia, quella dei maestri. Anche perché su Zio Paperone talvolta leggevi Scarpa, ma non accadeva spesso, e comunque Scarpa è quello che più si avvicina allo stile odierno del fumetto Disney nostrano.
                      Ecco, provate ad immaginare lo spaseamento, negli ultimi anni, nel cercare di approfondire Martina, Cimino, il primo Scarpa e tutta la trafila di artisti che di fatto hanno creato le radici (o, meglio, le hanno rinforzate) di quella che è oggi la scuola italiana. È uno spaseamento positivo, sia chiaro. Ma prendere in mano, per esempio, il primo numero dell'omnia di Scarpa e leggere Biancaneve e verde fiamma, e pensare: "che c'azzecca Biancaneve qui? Sarà la solita robaccia con personaggi dei lungometraggi amalgamati a personaggi classici", per poi scoprire che ci si stava sbagliando: questo è uno dei primi passi di chi, come me, è cresciuto a pane e Strobl e solo ora comincia ad uscirne, lentamente.
                      Non posso aggiungere molto al discorso sui modelli, e me ne rammarico: la mia è una ricerca ancora in corso, ed anzi, ancora all'inizio. Cerco "Eccetto Topolino" da molto tempo ad un prezzo umano, ma pare sia introvabile. E cerco da tempo di poter recuperare Pedrocchi, giusto per iniziare a vederci ancora più chiaro. Speriamo il tempo sia clemente (e la Panini anche, ma non ci giurerei).

                      *

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                        Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                        Risposta #10: Giovedì 17 Mar 2016, 00:10:44
                        Non sarei mai in grado di fare una riflessione sul tema approfondita quanto quella di Monkey_Feyerabend e di altri. Mi limito a fare due considerazioni.

                        1) Parlare di scuola italiana senza distinzioni non è completamente esatto. Per farla semplice, c'è una grossa differenza tra la "scuola italiana" di ieri (che iniziò a lavorare sui personaggi Disney) e quella di oggi. Sia subito chiaro: autori bravi c'erano ieri e ci sono oggi. Il mio non vuol essere il classico discorso "Ai vecchi tempi..." C'è da dire però che alcuni sceneggiatori oggi sono adagiati, utilizzano allo sfinimento certe cose che all'inizio, quando furono i "primi Disney italiani" a usarle, erano delle invenzioni argute. Oggi sono dei cliché. Si è parlato tempo fa dei debiti di Paperino dal lattaio e così via. Quando questi elementi venivano utilizzati anni fa, erano lo specchio della società, raccontavano qualcosa che effettivamente era abitudine comune. Oggi non è più così (con le eccezioni del caso). E' solo un esempio tra i tanti ovviamente. Per svariati motivi (e penso che uno dei principali sia la "censura" che in sé può anche essere un terreno fertile per la creatività quando ti costringe a trovare strade alternative, ma quando è insensata non porta niente di positivo) il fumetto Disney oggi è meno vitale di una volta perché non descrive il mondo com'è oggi (se non in superfice, mostrando e mi verrebbe da dire esibendo, tablet e cose varie, come a voler far vedere che si è a passo coi tempi quando in realtà non si è per niente attuali), ma com'era decenni fa.

                        2) In qualche altro topic, qualcuno collegava il tipo di storie (soprattutto dei paperi) italiane con una certa cultura cinematografica italiana, da Monicelli a Sordi ad esempio. Trovo che ci sia moltissimo di vero. E sinceramente non ne sono molto felice. La differenza che c'è tra Barks, ad esempio, e gli sceneggiatori italiani, penso sia data da una visione molto cinica ampiamente diffusa in questo Paese. Se andate a grattare sotto la superfice, troverete che Barks può anche far comportare scorrettamente i suoi personaggi ma la visone che ha della vita - da buon americano - è positiva, ottimista. In poche parole, per quanti difetti possano avere i personaggi, il sapore che lasciano le sue storie non sarà stucchevole o dolce, ma rassicurante sì.

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                          Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                          Risposta #11: Giovedì 17 Mar 2016, 10:48:30
                          Mi ritrovo pienamente in quello che dice il Dominatore a inizio topic. Ma secondo me si è un po' fuori pista quando si parla di cose tipo livelli di emotività o cinismo di questo o quel personaggio, di questo o quell'autore, o di quanto uno sia duro o dolce.
                          La mia chiave di lettura è invece la messa in scena (come sapete detta in ambito fumettistico assai impropriamente sceneggiatura, prendendo in prestito un termine dal teatro e dal cinema, ma in malo modo, visto che lo sceneggiatore di fumetti fa anche e soprattutto la regia della storia).
                          Tutto il resto, trama, tematiche, doppie letture, persino il disegno, tutto viene dopo (pur essendo importante, ovvio). La messa in scena è la sintassi del linguaggio fumetto. Quando narri il grosso sta nel modo in cui lo narri.
                          Mi sembra un'ottima categoria di analisi. Anzi altre volte ho cercato di esprimere il concetto del linguaggio (inteso appunto come messa in scena, oltre che come dialoghi) senza trovare l'espressione giusta.

                          Citazione
                          Gli italiani hanno una coerenza narrativa tutta loro, e ciascuno la sua.
                          Cimino per esempio ha una messa in scena solida, ma la sua narrazione è lenta e un po' didascalica.
                          Casty ha un ritmo discreto ma la sua narrazione è assai (troppo per me) didascalica.
                          Martina pare non avere alcun controllo del mezzo fumetto, specie agli inizi, si muove come un cane sciolto: a volte si dilunga troppo, a volte vorresti si fermasse un secondo e invece tira via (vi giuro, Martina per uno che viene dalla lettura di Barks e simili è uno shock...).
                          Ci credo!
                          Come ho provato a suggerire altrove (forse un po' off topic, magari quel messaggio andrebbe spostato nel topic generale di Guido Martina), consiglio di approfondire il Martina Anni Settanta. Complice anche la raggiunta maturità stilistica di tutti i disegnatori (vedi discorso di prima) le storie di Martina diventano davvero complete, con uno stile proprio e scattante, con ritmi -a mio parere- molto più definiti che in passato. Non voglio con questo dire che il Martina tardo è meglio del Martina "Fifties" (non scriverà più un Fantasma raffreddato o una Scuola modello), ma che sotto l'aspetto della messa in scena è assai più intrigante e coerente, e pertanto lo consiglio: Spada del Samurai, Campagna elettorale, le grandi storie con De Vita extra-Paperinik (il ciclo di Paperinik è un caso a parte, e molto interessante anche).

                          Citazione
                          Anche se mi riservo di leggere un po' di Chendi nei prossimi anni; da quelle due o tre storie sue che conosco lui  mi pare potenzialmente il "meno italiano" della vecchia guardia di italiani.
                          Trovo che di Chendi, del primo Chendi, si parli troppo poco: i grandi lavori con Bottaro sono una sorta di miracolo: "poco italiani" in un certo senso, cioè più strutturati, più amalgamati, italiani (in un senso diverso dagli altri, però) nella pensosità, in quella Haltung mediterranea che non ha fretta, e che mette in primo piano dialoghi e caratteri prima dell'azione (che pure, in storie come il Razzo interplanetario, è corposa).
                          Fate caso al fatto che la narrazione chendiana è spesso molto focalizzata; non su un personaggio fisso, ma su quello che di volta in volta occupa la vignetta (e raramente ci sono molti personaggi insieme, proprio per questo).

                          Citazione
                          In generale quello che mi colpisce degli italiani è la poca verve nella regia: mai a piazzare lì qualche guizzo nella messa in scena, nel passaggio da una vignetta all'altra, o nella composizione della tavola. Uno non si aspetta chissà che, sia chiaro, è fumetto mainstream con i suoi paradigmi specifici.
                          Ora che, come dici, lo stesso PK ha sdoganato certi meccanismi, c'è più comunicazione con altre tecniche. La regia della tavola di Don Rosa (per me Sommo nella cura dei dettagli comici, dai classici topolini in su) non si ritrova in nessun autore italiano, ma credo che quella di Casty, nelle storie più importanti, sia molto valida. Ti consiglio da questo punto di vista (ma l'avrai forse già letta) Il Mondo di Tutor.
                          Citazione
                          Vabbe', magari possiamo fare qualche esempio concreto. Ma preferisco non intervenire troppo in questo topic. Meglio leggere voi che ne sapete di più di questi maledetti italiani.  ;D

                          Maledetti italiani, hanno rovinato l'Italia! ;D


                          C'è forse una cateogoria analitica che potremmo mutuare dalla letteratura italiana, ed è quella sorta di ambiguità che caratterizza molta letteratura italiana. Uno straniero spesso trova la letteratura italiana piuttosto peregrina, al di là della bellezza stilistica, perché constata che molte altre (dall'inglese alla russa) esprimono i concetti in maniera molto più chiara. È facile riassumere un libro inglese, di solito, ed enuclearne le tematiche, salvo poi addentrarsi nei necessari dettagli e perle di stile. Ma c'è una gerarchia, come c'è una gerarchia nella regia della tavola di Don Rosa.
                          Nella letteratura italiana invece - e per me questo è un grande pregio, a suo modo - spesso la comunicazione è obliqua. Il pregio di libri come I promessi sposi non è nel presentare la storia che presenta. È... in tutto il resto. In un certo senso la letteratura italiana si sente così vecchia da aver già esperito il senso letterale duemila anni fa (quand'era latina...).
                          Questa vecchiaia, questo minore entusiasmo per la storia e maggiore per il sottinteso, per la forza verbale (necessaria proprio a far passare i messaggi acutissimi che l'allegoria propone), per i caratteri controversi, secondo me ha un piccolo riflesso sulla prima scuola italiana.
                          Ecco perché le storie di Martina, Cimino, Barosso, Chendi, Catalano, Dalmasso, etc., hanno una grande forza latente: "esseri cinici, scervellati e inconsulti!" (Dalmasso). Impagabile ma inutile, inutile ma impagabile. È tutto un ruotare di due parole intorno a un "ma" (Sciascia)

                          Oggi (come dice bene Mark) il discorso è molto mutato, e nessuno degli autori attuali, credo, attinge a questo "vizio letterario"; ma forse, va anche detto, vi si è già attinto abbastanza.

                          *

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                            Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                            Risposta #12: Giovedì 17 Mar 2016, 11:02:42
                            2) In qualche altro topic, qualcuno collegava il tipo di storie (soprattutto dei paperi) italiane con una certa cultura cinematografica italiana, da Monicelli a Sordi ad esempio. Trovo che ci sia moltissimo di vero. E sinceramente non ne sono molto felice. La differenza che c'è tra Barks, ad esempio, e gli sceneggiatori italiani, penso sia data da una visione molto cinica ampiamente diffusa in questo Paese. Se andate a grattare sotto la superfice, troverete che Barks può anche far comportare scorrettamente i suoi personaggi ma la visone che ha della vita - da buon americano - è positiva, ottimista. In poche parole, per quanti difetti possano avere i personaggi, il sapore che lasciano le sue storie non sarà stucchevole o dolce, ma rassicurante sì.

                            Beh, il punto è che se si vuole abbattere il cliché, di cui le storie attuali (come dici giustamente nel primo punto) sono sature, bisogna anche reinterpretare i personaggi, che è quello che ha fatto la scuola italiana.
                            Barks a mio avviso non poteva essere trasposto in Italia fedelmente: quel cieco ottimismo da America dell'immediato dopoguerra, quel sogno amercano di cui Paperone è per l'appunto figlio, in Italia non era del tutto trasponibile. L'immediato dopoguerra che abbiamo sperimentato noi era miserevole e pregno di battaglie ideologiche: in pratica nulla di rassicurante. Come poteva, quindi, il clima di Barks far parte delle storie italiane? A mio avviso è questo che distingue nettamente le due scuole: lo sfondo nella quale si trovano a produrre le storie. Ovviamente questo sfondo influenza nettamente i contenuti. Il Paperone italiano, in passato, era meno propenso alle moine o a quel "cuore d'oro" che spesso gli viene attribuito oggi, dopo l'influenza che Don Rosa ha esercitato sulla nuova generazione di sceneggiatori (che giustamente tu dici essere diversa da quella passata). Era un Paperone gretto ed egoista, un padrone sfruttatore. Questa reinterpretazione generale (e non solo riguardo il personaggio di Paperone) ha, secondo me, fatto andare avanti la scuola italiana per anni ed è da queste basi che la biforcazione tra noi e le storie americane/danesi ha preso il via, dando quindi un carattere del tutto peculiare al nostro modo di interpretare il mondo Disney.

                            *

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                              Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                              Risposta #13: Giovedì 17 Mar 2016, 11:11:25
                              2) In qualche altro topic, qualcuno collegava il tipo di storie (soprattutto dei paperi) italiane con una certa cultura cinematografica italiana, da Monicelli a Sordi ad esempio. Trovo che ci sia moltissimo di vero. E sinceramente non ne sono molto felice. La differenza che c'è tra Barks, ad esempio, e gli sceneggiatori italiani, penso sia data da una visione molto cinica ampiamente diffusa in questo Paese. Se andate a grattare sotto la superfice, troverete che Barks può anche far comportare scorrettamente i suoi personaggi ma la visone che ha della vita - da buon americano - è positiva, ottimista. In poche parole, per quanti difetti possano avere i personaggi, il sapore che lasciano le sue storie non sarà stucchevole o dolce, ma rassicurante sì.

                              E' il contesto culturale che sicuramente influenza questo tipo di cose. Bisogna considerare che, per quanto si differenzino una prima e una seconda scuola italiana, quest'ultima ha nel suo DNA la traccia degli autori che hanno aperto la strada, e questi scrivevano/disegnavano in un Paese che aveva affrontato un Ventennio di autarchia, repressione intellettuale e che usciva dalla guerra con le maggiori città bombardate, un'enorme immigrazione interna e disoccupazione dilagante. Dall'altro lato, autori come Barks e Gottfredson lavorano in quella che è la prima o seconda potenza mondiale (con il relativo rallentamento dell'URSS nell'immediato dopoguerra), in posti dove la vita era decadi più avanti che da noi.

                              Il collegamento a Sordi, Monicelli ma anche Tognazzi è indubbiamente vero, ma loro stessi erano sintomo e non causa. La nostra filosofia è quella che affonda le sue radici in Croce, Gramsci, nel cattolicesimo gesuitico, non nella fiducia nella mano invisibile di Smith.

                              Sul gap che è venuto a formarsi tra la rappresentazione e la realtà sono perfettamente d'accordo, si utilizzano alcuni stereotipi per pigrizia creativa. Sono meccanismi collaudati, che all'autore non danno problemi, ma che denunciano un declino. D'altronde quando si cerca di mettersi al passo (vedi Smartphone) i risultati sembrano rincorse all'ultima moda senza un reale obbiettivo.

                              "Vanno di moda gli smartphone! Inseriamoli!"
                              "Ma come?"
                              "Ci penseremo dopo!"

                              Manca il pepe, insomma, quella capacità di fare umorismo caustico che Monicelli, con tutta la sua amarezza aveva. Siamo rimasti alla scorza ma manca la polpa.
                              Ahimè! Così finisce una grande missione di cultura e di civiltà!

                              *

                              Mark
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                                Re: La scuola italiana e i suoi modelli
                                Risposta #14: Giovedì 17 Mar 2016, 12:04:10
                                D'accordissimo con McDuck e AzureBlue. Sordi e company sono sintomo, non causa, ma finiscono col diventare anch'essi causa, portando avanti una certa visione e diffondendola in nuove generazioni.

                                Il difetto dei danesi è che sono più realisti del re, ovvero più barksiani di Barks. Quello che in lui era genuina invenzione, in loro è manierismo. Si perde freschezza, esattamente come accade quando nella scuola italiana si ripropongono cliché ormai fuori dall'attualità.

                                C'è anche da fare un'altra considerazione sulle differenza tra l'Italia del dopoguerra e gli Usa. Sappiamo bene che l'Italia è stato Paese di confine nella cortina della Guerra Fredda e questo Paese ha avvertito prepotentemente gli effetti che derivavano da questa situazione. In un certo senso, fino almeno a qualche decennio fa, una visione "comunista" del concetto di padrone-lavoratori, del capitalismo e di altre cose erano diffuse. Ed anche queste hanno contribuito a dare certi connotati a Paperone. Generalmente un personaggio che è un imprenditore negli Usa è considerato un personaggio positivo; in Italia, fino a poco fa, era considerato negativo a prescindere.

                                 

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