quando si riflette sulla pochezza e la modestia del vocabolario della lingua "importata".
Fuor di metafora, trovo insopportabile il dilagante utilizzo di termini anglofoni quando il nostro idioma presenta una ricchezza e varietà di espressioni che gli anglofoni possono solo sognarsi! Noi che possiamo fregiarci della possibilità di esprimere un concetto con più vocaboli differenti preferiamo utilizzare termini stranieri che, il più delle volte, hanno più significati proprio per sopperire alla modestia del loro vocabolario...
Non vedo nessuna necessita' di insultare un'altra lingua per difendere la propria. (Insulto che tra l'altro sembra basato su una percezione forse opposta alla realta': non ho dati in proposito, ma avevo sentito dire, e non ho difficolta' a credere che sia vero, che il vocabolario inglese contiene molti piu' termini di quello italiano, anche senza contare i neologismi tecnici.)
A meno che con anglofoni tu ti riferisca a quelli che hanno appreso l'inglese come seconda lingua e che percio' ne conoscono solo un numero di molto limitato di termini ("modestia del vocabolario importato", non "modestia del vocabolario della lingua").
E' l'ennesimo frutto avvelenato della globalizzazione selvaggia, che impone dall'alto modelli sociali e culturali che si propongono di uniformare la società riducendone la ricchezza culturale (e linguistica, per quel che riguarda l'argomento in esame).
Detto cosi', suona molto come una "teoria del complotto" (e rende assai meno credibile le tue tesi). Personalmente, preferisco pensare alla cosiddetta "globalizzazione" come ad un'occasione per l'arrichimento culturale. E cercherei altrove le radici dell'impoverimento culturale nella societa' italiana (impoverimento che, purtroppo, mi sembra un fatto ben reale).
Un bassotto che si riferisce a Paperone apostrofandolo "arpagone" può spingere il lettore a cercare il significato o a chiedere spiegazioni ai genitori.
Hanno gia' fatto di
meglio (per chi non conoscesse la storia in questione: e' una parodia de "L'avaro" il cui spunto e' il fatto che
Paperone, apostrofato come "arpagone" da Rockerduck, deve farsi spiegare il termine
).
Spesso oggi leggiamo parole auliche in contesti in cui non sono inserite perfettamente. Con Martina (ma anche Cimino e molti altri autori) tali termini si fondevano perfettamente, ora (a volte, intendiamoci) appaiono un po' fuori posto, quasi forzate.
E' una sensazione ho spesso: parole "difficili" che sembrano inserite piu' per far sfoggio che come parte del lessico correntemente usato nel mondo in cui la storia e' ambientata, a differenza chein passato. Questa sensazione poi e' (probabilmente) accentuata dall'uso del grassetto ad evidenziare il termine insolito. Tra gli autori con cui mi succede piu' spesso, mi saltano subito in mente Panaro e Gagnor, ma non sono gli unici, anzi. (Farei un discorso a parte per Vitaliano, in cui la ricchezza lessicale e' spesso parte del sarcasmo: non apprezzo troppo, anche perche' togliendo naturalezza all'uso di certe parole alla fine diventa comunque l'ammissione di un generale impoverimento linguistico, ma mi da' l'impressione di una sua scelta stilistica che posso rispettare, piuttosto che di una resa ad abbassarsi al "minimo comun denominatore" della cultura televisiva.)
Non si tratta soltanto di una questione di lessico: nel
Topolino anni '60 e '70 si suppone ad esempio che tutti abbiano una discreta infarinatura di mitologia classica, letteratura italiana ed altre basi della tradizionale preparazione umanistica (mi viene subito in mente Paperino che tenta di citare
Dante - e la citazione e' colta da chi lo ascolta; oppure le
risate dei nipotini all'idea di "cercare l'occasione nell'orto").
Mi viene in mente un'altra cosa. Avete notato che da vari anni se in una storia ci deve essere qualcosa in "poesia" i versi non hanno nessuna musicalita'? Naturalmente su
Topolino non pretendo un livello letterario superiore a quello di una filastrocca (genere piu' che dignitoso, si veda Gianni Rodari); ma una filastrocca per funzionare richiede un minimo di cantabilita', ci devono essere versi di lunghezza regolare, rime che funzionano, etc., qualita' che un tempo venivano generalmente rispettate, mentre in anni recenti ho spesso avuto l'impressione che gli autori si siano limitati a cercare parole con la stessa sillaba finale.
Ma il linguaggio dei Cimino o dei Martina non era aulico.
Definire "aulico" un linguaggio significa connotarlo di sfumature nobili, se non proprio poetiche.
Precisazione apprezzabile. Anche se
"
Spiriti dei trapassati vichinghi! Paperino eguagliera' le vostre leggendarie gesta!" mi sembra decisamente aulico. Come grossomodo tutta quella
traduzione (a cominciare dal titolo: si noti la scelta di rendere "helmet" con "cimiero").
E credo non sia troppo difficile trovare altri esempi dove l'aggettivo aulico e' appropriato (incluse casi in cui questo genere di linguaggio e' usato per essere preso in giro,
tipo "
O quale iniqua mano recise si' trepide corolle che allietavan silenti di profumata grazia i variopinti giardini!").