Inaspettata, grottesca, spiazzante. E anche pervasa da suggestioni non indifferenti: l’enigmatico ricattatore con cappello a cilindro e mantello svolazzante fa pensare ai feuilletons francesi di inizio ‘900, con le loro affascinanti e sfuggenti figure come Arséne Lupin e Fantomas.
Guido Martina certo rimpiange di non aver potuto far morire sul serio le sue vittime, poiché l’antagonista di questa storia non è nulla di meno che un serial killer: soltanto, la previdente sceneggiatura fa in modo che non lo diventi in modo effettivo. Ma i numeri ci sono tutti, e non solo il famigerato 7 con cui l’Autore gioca in un crescendo goliardico.
Stavolta la resa dei conti avviene in un ospedale psichiatrico in cui Martina ci sconvolge mostrando un caso umano di schizofrenia all’ultimo stadio che non contempla, a differenza degli altri gialli topoliniani, l’avidità di denaro. Nel film americano di Mark Robson
Manicomio [1946], Boris Karloff interpretava il lucido direttore del manicomio di Bedlam nel [ch700]700 (l’ispirazione veniva dalla figura del fisico John Monro, 1716-91), personaggio che esternava una razionalità mostrante il suo lato cinico e crudele. Nella storia di Martina la razionalità subisce una batosta: un delirio distruttivo per tutti è generato dall’innesto di schegge di follia (dalle quali evidentemente costui non si era sufficientemente barricato) nella mente di una personalità che di per sé dovrebbe vedere sé stessa e il mondo sotto un’ottica razionale e scientifica. Non ci si può fidare neanche degli scienziati, pare!
Martina sceglie di non mostrare i pazienti del manicomio, in un periodo in cui nel cinema italiano i malati mentali erano ancora presentati in veste farsesca.
La superstizione – quale che sia il modo in cui si presenta – è frequente in Martina, in questo caso vi è il 7 che assedia ogni vignetta. In una possibile lettura esoterica di questa storia, l’antagonista (personaggio ossessionato dal numero 7 che rappresenta la globalità, l’universalità, l’equilibro perfetto) è un aspirante all’iniziazione preda del caos. Alle qualità esoteriche del 7 lui sembra ambire (brucia un bosco per far vedere a tutti la bellezza delle notti di Settembre), ma cade in fallo come quando vuol rescindere senza condizioni (pag. 22) un rapporto causa-effetto (testa di Pippo e sua emicrania), dualità sacra per la Massoneria. Inoltre non è riuscito a liberarsi della squallida ossessione umana del denaro, che egli accumula senza trovargli uno scopo pratico (lo usa per tappezzare la camera!).
Anche la data di uscita di questo albo (forse qualche giorno prima dell’ufficiale 2 Ottobre) potrebbe aver dietro una suggestione, data l’insistenza di Martina sul 9° mese dell’anno: il 20 Settembre è una di quelle poche date storiche celebrate dalla Massoneria (di solito il loro omaggio è a solstizi ed equinozi): è la “liberazione della foresta dai lupi”, dicevano i carbonari, ovverosia il giorno (nel 1870) della Breccia di Porta Pia, che segnò la conquista e annessione di Roma al giovane Regno d’Italia e la fine del potere temporale dei Papi. La dichiarazione di Roma quale Capitale del Regno d’Italia fu poi sanzionata, da un plebiscito, proprio il 2 Ottobre. Idealmente fu vista come l’emancipazione dall’oscurantismo della teocrazia e dei suoi dogmi (dunque la libertà dell’uomo); molti massoni dell’epoca non si sforzavano nemmeno di dissimulare una certa dose di rivalsa anticlericale.
È una coincidenza l’omonimia dell’antagonista col progressista psichiatra scozzese (ma attivo in Australia) Eric Sinclair (1860-1925)? Forse no.
Giuseppe Perego, oltre alla sua offerta di buoni dettagli cittadini, fa un bel lavoro nel ritrarre il grand guignol martiniano: grazie alle trovate “esagerate” dell’autore piemontese, questa storia si è meritatamente ritagliata un posticino nella lista delle “memorabili” di Perego presso i lettori.
1ª delle poche apparizioni di Tip & Tap nelle storie di Guido Martina: anche in questa stessa storia, si rimpiange di non aver potuto vederli più attivi nell’intreccio.