Intervista a Silvano Mezzavilla

07 FEB 2021

Silvano Mezzavilla, nato a Gradisca di Sedegliano, in provincia di Udine, nel 1944, giornalista, sceneggiatore, curatore di mostre di fumetti e rassegne cinematografiche. Tra la fine anni Ottanta e i primi anni Duemila lascia un segno profondo nella storia del fumetto Disney italiano, dando nuovo smalto al personaggio di Topolino con una serie di storie che rinnovano l’intero universo topolinese e tracciando la strada che sarà poi percorsa da altri suoi colleghi.

Innanzitutto grazie per aver acconsentito a questa intervista. È un vero piacere poter interagire con uno degli autori più apprezzati dai lettori. Cominciamo con la più classica delle domande. Lei inizia ad occuparsi professionalmente di fumetti dal 1974 collaborando per un giornale veneto. La passione da dove le deriva? Quali sono stati i fumetti della sua “formazione”?

Sono io che ringrazio lei e la redazione del Papersera per l’interesse rivolto alle mie attività nell’ambito del fumetto.

Sono stato affamato di storie e di immagini fin da bambino. Dapprima contemplavo le figure, poi, quando imparai a leggere, il fumetto mi permise di accedere ad un immaginario che alimentò la mia curiosità e la mia fantasia. Nonostante la mia famiglia disponesse di limitati mezzi economici (i giornalini venivano comprati solo se ottenevo ottimi risultati scolastici, e quindi raramente), i fumetti in casa non mancavano.

Uno zio, fan di Tex, di Kinowa e di Gim Toro, periodicamente mi regalava un bel po’ di quegli albetti a strisce che io leggevo non una volta sola, e poi scambiavo con i compagni di giochi. Così ebbi modo di conoscere Il Vittorioso, l’Intrepido, Il Monello, il Pioniere e di appassionarmi alle avventure di Topolino e Paperino e a quelle di Akim, del Grande Blek, di Capitan Miki. Successivamente, dal primo numero e per almeno tre anni, investii la mia paghetta nell’acquisto de Il Giorno dei Ragazzi che pubblicava sia i nuovi personaggi di Jacovitti, che serie inglesi tra le quali spiccava il fantascientifico Dan Dare.

La testata d’angolo della critica fumettistica in Italia

Nel 1961 uscì per Mondadori I fumetti di Carlo della Corte, primo saggio italiano dedicato ai comics, e io, desideroso di saperne di più sui personaggi che vi venivano menzionati, cominciai a interessarmi sia ai classici americani (da Gordon a Popeye, da Brick Bradford a Dick Tracy) che alla più recente produzione belga e francese, grazie a conoscenti che andavano spesso da quelle parti.

Fondamentale, per la maturazione del senso critico e per la consapevolezza del fumetto come forma d’arte, fu il debutto in edicola del mensile Linus, cui via via si affiancarono le riviste Sgt Kirk e Eureka, oltre a varie, pionieristiche fanzine. Si trattò di un evento che definirei “epocale”: il fumetto fu legittimato culturalmente; l’estetica e i temi trattati diventarono adulti; gli autori conquistarono ampia libertà creativa.

Diventai un assiduo lettore di strip (dai Peanuts a Pogo fino alle Sturmtruppen), e un ammiratore delle narrazioni di Pratt, D’Antonio, Battaglia e Buzzelli, della satira di Feiffer e Chiappori, del lavoro di Guido Crepax che raccontava l’erotismo e la società coeva e nel contempo apriva alle vignette in sequenza opportunità linguistiche inedite. 

Ad un certo punto, nella mia libreria si poteva trovare non tutto (perché non sono un collezionista seriale) ma davvero di tutto. Fu per questa ragione che nel 1974 il giornalista e mio grande amico Giancarlo Granziero (purtroppo scomparso nel 2012) mi propose di curare una rubrica sul fumetto per il settimanale 7 Giorni Veneto per il quale, allora, lavorava. Fu da lì che iniziò la mia “avventura” nel mondo del fumetto: ebbi la possibilità di recensire le ultime novità, di dare notizie sulle ristampe amatoriali, di conoscere e talvolta intervistare famosi disegnatori.

1965-1967: l’inizio della rivoluzione

Tra gli altri suoi interessi il cinema, intuibile anche dalla lettura delle sue storie. Quest’altra sua passione, che l’ha portata a curare diverse rassegne cinematografiche, quali radici ha?

Come il fumetto, pure il cinema ha avuto un ruolo determinante nella mia formazione culturale. Direi, anzi, che è la componente fondativa della mia creatività. Per molti anni sono entrato in una sala cinematografica almeno una volta alla settimana uscendone con gli occhi e la mente colmi di immagini e di suggestioni che nemmeno il tempo avrebbe cancellato. Sono, dunque, centinaia i film che mi hanno emozionato, divertito, educato, sedotto, ed è dunque impossibile elencarli tutti. Ci tengo tuttavia a citare i nomi dei registi che occupano la vetta del mio olimpo a 35 mm – ovvero Federico Fellini, Stanley Kubrick, François Truffaut, Billy Wilder, Alfred Hitchcock, Karel Reitz, Tony Richardson, Orson Welles, Howard Hawks, Milos Forman – ai quali va la mia gratitudine di spettatore e di autore di storie.

A vent’anni sognai di emularli. Scrissi la sceneggiatura di una storia ispirata al “free cinema” inglese e con alcuni amici in vesti di tecnici e di attori iniziammo le riprese. Dopo una settimana, però, io finii in ospedale per un incidente automobilistico e l’impresa si arenò. Due anni dopo andai a vivere Roma dove ebbi varie esperienze nell’ambito del doppiaggio e come assistente degli sceneggiatori Romano Migliorini, Gianbattista Mussetto e Roberto Natale. Nel 1970 mi sposai e tornai a Treviso.

Agostino Toscana firma la locandina della rassegna cinematografica del 1984 dedicata ai film sulla danza

Quando già da tempo organizzavo Treviso Comics (in cui una sezione dedicata al cinema – da Méliès ai “film a luce rosa” – non mancò quasi mai), ebbi modo di curare per tre anni, con Everardo Artico, la programmazione cinematografica della Estate Trevigiana: nel 1984 vennero proiettati film sulla danza, da Fred Astaire a John Travolta, nel 1985 una serie di pellicole ambientate nel mondo dello sport, e infine, nel 1985, la rassegna rappresentò un omaggio a Luciano Vincenzoni – sceneggiatore di film di culto come La grande guerra e Il buono, il brutto, il cattivo – che a Treviso era nato e aveva vissuto

Negli anni Settanta, oltre a Lucca non c’erano altre manifestazioni significative riguardanti il fumetto. Da dove nasce l’idea di organizzare Treviso Comics e chi sono stati i suoi compagni di avventura?

Nacque nel 1975, proprio dalla constatazione che c’era spazio per un’altra manifestazione sul fumetto in Italia, data l’effervescenza creativa che andava caratterizzando quegli anni e il riaccendersi della passione verso le vignette e i suoi creatori.

La rubrica che curavo sul settimanale, mi aveva dato modo sia di conoscere autori ed editori che di avere contatti con appassionati e collezionisti. Cosicché mi venne naturale l’idea di organizzare nella mia città un appuntamento annuale dedicato alla nona arte. Mi consigliai con Marina, mia moglie, e ne parlai con Granziero, da sempre mio sodale. Venne redatto un progetto, da cui apparve subito chiaro che oltre alle nostre belle intenzioni, per concretizzare il programma erano necessari spazi adeguati e denari.

Chiedemmo un incontro con l’assessore alla cultura del Comune: questi ci ascoltò in silenzio; aprì la bocca solo per gelarci affermando che, secondo lui, “di fumetti, in giro, ce ne sono troppi”. Bussammo all’ente provinciale per il turismo dove le nostre parole e il nostro entusiasmo non scalfirono la burocratica indifferenza degli interlocutori. Nonostante gli esiti negativi di questi contatti, non intendevo issare bandiera bianca e fu allora che a Giancarlo venne in mente un nome: Giordano Anselmi. Anselmi, anziano giornalista del Gazzettino, era presidente dell’Associazione della stampa trevigiana e in procinto di assumere lo stesso incarico alla Pro loco. Una sera lo aspettammo all’uscita dalla redazione di Venezia e gli raccontammo cosa intendevamo fare.

Grandi maestri per grandi locandine: Luciano Bottaro (Treviso Comics Quattro, 1979), Cecilia Capuana (Treviso Comics Cinque, 1980), Giorgio Cavazzano (Treviso Comics Sei, 1981), Moebius (Treviso Comics Venti, 1995)

Lui non leggeva fumetti da quand’era bambino, ma capì le potenzialità del progetto e disse, ricordo bene, “si fa, ci penso io!”. Dal presidente della Camera di commercio, di cui era amico, ottenne l’uso del salone delle contrattazioni (dove si sarebbe svolta “la mostra mercato delle novità editoriali e del fumetto d’antiquariato”), della sala convegni e di un ampio spazio al primo piano, adatto per le esposizioni; dalla Cassa di risparmio ricevette la promessa di un contributo.

Il progetto di Treviso Comics poteva diventare realtà: la prima edizione si sarebbe svolta dopo sei mesi, il 28 e il 29 febbraio 1976! Subito comunicai la novità agli autori che avevo conosciuto, invitandoli a esporre e a partecipare. Andai a Milano e contattai a un po’ tutti gli editori, ottenendo  le adesioni della Cepim (ora Sergio Bonelli Editore), della Corno e della Dardo. A Roma incontrai Rinaldo Traini, direttore del Salone di Lucca e titolare della Comic Art, Camillo Conti, che ristampava antichi lavori di Jacovitti e di Craveri, e Franco Grillo fondatore dell’ANAF – Associazione Nazionale Amici del Fumetto.

Grillo diede un notevole apporto organizzativo: informò gli associati, dando loro appuntamento a Treviso; coinvolse antiquari ed editori amatoriali; ottenne da Jacovitti l’autorizzazione a usare un suo disegno come manifesto del festival. Intanto, Granziero, aiutato da Mariagrazia Raffele, giovane redattrice di 7 Giorni Veneto, curava la promozione e l’ufficio stampa. I consigli e l’amicizia di Piero Zanotto e Gianni Brunoro (allora e per tutti gli anni successivi) ci furono molto preziosi.

Le due fatidiche giornate di febbraio infine arrivarono. E alla Camera di commercio arrivò una folla, superiore alle nostre più rosee aspettative, composta da vecchi e giovani fan e da tanta gente incuriosita. Tennero “a battesimo” Treviso Comics, grandi firme come Altan, Dino Battaglia, Bonvi, Guido Buzzelli, Renato Calligaro, Giorgio Cavallo, Guido Crepax, Gianni de LucaRuggero Giovannini, Sergio Toppi. Nel pomeriggio dell’ultimo giorno ci fece visita Romano Scarpa. 

Treviso Comics si è svolta per quasi trent’anni, dando spazio fin da subito ai maggiori autori italiani (Battaglia, de Luca, Pratt, Toppi per citare solo i primi che vengono in mente) e poi anche artisti stranieri, con grande risposta del pubblico e attestati di stima anche da istituzioni e politica. Quando avete iniziato immaginavate che avrebbe avuto questo successo?

L’esito estremamente positivo della prima edizione ci obbligava a progettare  il futuro con un’offerta culturale che caratterizzasse il più possibile il festival. Alla ricerca della formula vincente, dal 1977 al 1978 concepii un programma composto da tre sezioni espositive: una dedicata alla storia del fumetto, la seconda rivolta alla contemporaneità, l’ultima come ribalta per giovani professionisti.

Pertanto, muovendoci da queste linee guida, a Treviso Comics Due il pubblico poté ammirare sessanta tavole originali di maestri americani degli anni Trenta e Quaranta, la personale dell’artista spagnolo Victor de la Fuente, e una “collettiva” che comprendeva Giorgio Cavazzano, Milo Manara, Enzo Marciante, Paolo Ongaro, Silver. Nell’edizione successiva proponemmo una mostra di “Images d’Épinal”, per la prima volta in Italia, la personale di Gino D’Antonio, e (ancora in anteprima assoluta) una panoramica sulle “donne autrici di fumetti”, con protagoniste Lina Buffolente, Cecilia Capuana, Mara della Torre, Cinzia Ghigliano, la francese Annie Goetzinger e Grazia Nidasio.

A Treviso Comics Quattro, essendo il 1979 l’anno internazionale del bambino, la mostra più ampia fu quella con decine di tavole di piccoli eroi del fumetto – da Buster Brown a Yellow Kid ai Peanuts – affiancata dalla personale di Luciano Bottaro e da un omaggio agli illustratori italiani e stranieri di Robinson Crusoe.

Nel 1980 individuai la formula vincente: da allora in poi la Rassegna avrebbe usato il fumetto come mezzo per leggere, interpretare e descrivere, anno dopo anno, argomenti legati a temi sociali e culturali. Treviso Comics diventò monografica e assunse un titolo diverso ad ogni edizione, in modo da evidenziare il tema trattato.

L’esordio, coincise con i settantacinque anni dalla morte di Jules Verne, autore di “straordinarie avventure” anticipatrici di future scoperte scientifiche. Risultò una mostra colossale. Tavole di fumetti ispirati a opere verniane firmate da autori italiani e stranieri affiancavano ottocenteschi volumi editi da Hetzel, romanzi nelle lingue più varie, celebri illustrazioni, perfino oggetti appartenuti allo scrittore di Nantes. L’exploit fu pari alle mie aspettative: di Treviso Comics non parlarono solo i giornali di settore, ma soprattutto i grandi quotidiani nazionali e i più popolari settimanali da Oggi a Amica, con articoli ampi, dettagliati ed encomianti.

Il successo ci entusiasmava (per “ci” intendo lo staff organizzativo, denominatosi Circolo Amici del Fumetto e allora formato da Giordano Anselmi, Giancarlo Granziero, Mariagrazia Raffele, Marina Corsetti e da me), ma avvertivamo che la limitatezza dei mezzi a disposizione avrebbe reso difficile se non impossibile architettare un’altra edizione. Inaspettatamente ci venne in soccorso un assessore comunale. Non quello alla cultura, bensì l’assessore al commercio, che prese l’iniziativa di parlare della mostra a Luciano Benetton, suo amico fin dall’infanzia. Io e Anselmi incontrammo il noto imprenditore della maglieria nella villa veneta  alla periferia della città. Gli parlai di fumetti e gli descrissi cosa avevamo fatto e cosa intendevamo fare; lui prese appunti e disse che aveva bisogno di qualche giorno per maturare la decisione.

Quattro giorni dopo venni contattato da Franco Giacometti, titolare di un’agenzia di comunicazione, creatore del marchio aziendale e portatore della risposta: la Benetton ci avrebbe sponsorizzato per le successive tre edizioni! In quell’arco di tempo i risultati ottenuti dalla Rassegna grazie ai mezzi ora messi a disposizione, avrebbero indotto gli enti pubblici a erogare finanziamenti adeguati.

La copertina del catalogo Treviso Comics Humour disegnata da Silver (1993)

La sponsorizzazione prevedeva lo progettazione e la realizzazione di tutte le strutture, dai pannelli espositivi ai box degli editori, la stampa di oltre duecento ingrandimenti fotografici di vignette e tavole, la produzione di un catalogo (3.000 copie!) brossurato e di oltre cento pagine, la cura totale dell’immagine grafica dell’evento, dai manifesti al materiale pubblicitario. La mostra si intitolò “Vivere insieme, viaggio nella coppia a fumetti” e utilizzò binomi fumettistici per raccontare, descrivere, parodiare le coppie in carne e ossa fatte da un lui e una lei, da un lui e un lui, da un lui e…

La collaborazione della Benetton durò quattro anni, anziché i tre previsti, durante i quali i temi furono “L’iconografia rosa”, “I fumetti degli anni Sessanta”, “Il 1934”. Nel 1985 il Comune divenne (finalmente) il principale sostenitore della Rassegna, assieme alla Provincia e alla Regione. “Nuvole maliziose”, titolo della decima edizione, faceva riferimento ai sette peccati capitali, che nei fumetti avevano innumerevoli adepti. Ottenemmo il patrocinio del Presidente della Repubblica.

Il giorno prima dell’inaugurazione ricevetti un telegramma; diceva: «All’apertura del decimo Treviso Comics, sono lieto di esprimere il mio apprezzamento e il mio augurio più cordiale agli organizzatori, a quanti hanno collaborato all’allestimento, al vasto pubblico degli appassionati e dei visitatori. In dieci anni di intelligente e attivo impegno questa rassegna ha saputo conquistarsi uno spessore culturale e un rilievo che trascendono l’ambito nazionale  e, tra l’altro, testimoniano dell’interesse che il pubblico nutre verso una forma espressiva vitale e ricchissima. Cordialmente, Sandro Pertini».

Successivamente  i temi furono il rock, la pubblicità, il cinema, la moda… e qui mi fermo per non tediare. Invito, tuttavia, chi fosse interessato a conoscere i dettagli di una storia conclusasi del 2003, a visitare il sito www.trevisocomics.it e a consultare la voce Treviso Comics su Wikipedia. 

Fin dalle prime edizioni la manifestazione si orienta verso una formula originale rispetto ad altre simili: non più un weekend o comunque pochi giorni di durata, ma una settimana, due, in alcuni casi persino tre. Una filosofia diversa quindi, la possibilità di vivere l’evento, di immergervisi: una formula dettata dalla volontà di raggiungere un pubblico  più vasto e magari avvicinare anche un pubblico nuovo?

Ritenevamo che la personale di un disegnatore o una collettiva non dovesse durare lo spazio di un weekend, come per la “mostra mercato”. Ci consideravamo dei divulgatori culturali; volevamo coinvolgere un pubblico più ampio, eterogeneo, e permettergli di conoscere e di apprezzare l’arte dei creatori di fumetti.

Per raggiungere questo obiettivo, tre giorni non erano sufficienti. Le esposizioni (per di più allestite con ingenti investimenti e fiancheggiate da un catalogo che coinvolgeva i più noti critici del settore) meritavano di essere visitate per  almeno due settimane, addirittura tre, come gesto di rispetto verso gli artisti. Ad essi e ai loro lavori era dedicata la Rassegna.

In oltre venticinque anni di attività, hanno esposto e sono stati ospiti di Treviso Comics, decine e decine di disegnatori, autentiche star del comicdom nazionale e internazionale, di cui è impossibile riportare qui l’elenco. Ciò che mi rende particolarmente orgoglioso è l’aver, molto spesso,  reso protagonisti delle mostre di Treviso Comics, talentuosi artisti prima sconosciuti nel nostro paese, o che mai erano stati invitati ad esporre in Italia. Penso, tra gli altri, a Lewis Trondheim e Jean-Christophe Menu, a Gérard Lauzier, Ever Meulen, Miguelanxo Prado, Jean Claude Gotting, Gilbert Shelton, Federico del Barrio, Miguel Calatayud, Carlos Nine, Leo Baxendale, Frank Margerin, Joost Swarte, Theo Van den Boogaard, Dave McKean, John Bolton, Don Lawrence.

Tutti – italiani e stranieri, esordienti nella professione e autorevoli  “maestri”, giovani o anziani, famosi o sconosciuti al grande pubblico – ricevevano la medesima attenzione, il medesimo affetto e il medesimo premio: una piastrella incorniciata con riprodotto il logo della specifica manifestazione. Con molti di essi mantengo ancora oggi, a tanti anni dalla chiusura della Rassegna, rapporti di simpatia e di amicizia. Che considero il lascito più prezioso di Treviso Comics.

Si sta come d’autunno, storia di Mezzavilla e Ongaro per la collana Uomini e guerra del 1977

Quasi contemporaneamente all’attività di curatore, inizia a scrivere sceneggiature per fumetti per testate della Dardo e dell’Eura. Può raccontarci qualcosa di questi suoi primi passi da sceneggiatore? Con quali disegnatori ha lavorato?

Avevo parlato delle mie trascorse esperienze cinematografiche col disegnatore Paolo Ongaro, che era in procinto di iniziare una collaborazione con il quindicinale Uomini e guerra della Dardo.

Quando gli ideatori della rivista parteciparono alla prima edizione di Treviso Comics, Ongaro fece loro il mio nome. Terminato il festival, scrissi una storia ambientata durante la prima guerra mondiale sul monte Grappa, che venne accettata. A quella seguirono altre due: tutte illustrate da Ongaro.

Qualche mese dopo presi contatto con l’Eura e realizzai un racconto western che venne disegnato da un autore di cui non ho mai saputo il nome. Nel contempo mi vennero chiesti altri soggetti, anche per fotoromanzi, ma l’organizzazione di Treviso Comics, impegnativa e molto coinvolgente, mi lasciava poco tempo. Avendo inoltre iniziato una collaborazione col quotidiano Il Mattino di Padova dovetti accantonare l’attività di sceneggiatore. Momentaneamente, pensavo… e passarono otto anni.

Nella seconda metà degli anni Ottanta comincia la sua attività con Disney (le cui pubblicazioni italiane erano edite dalla Mondadori). Come è nata questa collaborazione?

Fu Giorgio Cavazzano a esortarmi a “tornare in scena” e a scrivere per Topolino. Elaborai una storia con protagonista Paperino che gli piacque e che mi invitò a inoltrare alla redazione: se fosse stata accettata, cosa della quale era convinto, avrebbe fatto in maniera di disegnarla lui stesso. 

Dieci giorni dopo ero in viaggio per Segrate; andavo a incontrare Massimo Marconi, responsabile sceneggiature, e per parlare del compenso col direttore Gaudenzio Capelli. Di li a poco sarei entrato nel “magico mondo” della Walt Disney: wow! 

Un Paperino eroico alle prese con un disastro ecologico

La sua prima storia Disney (pubblicata), Paperino e la penuria ferrosa è forse poco nota eppure è molto ben riuscita: un Paperino molto dinamico e coraggioso il giusto, una trama fantascientifica classica ma efficace, una eroina che non si dimentica, un Paperone ben caratterizzato nella sua breve apparizione… Non si direbbe l’opera di un esordiente con questi personaggi!

È una storia di fantascienza ecologica con un pizzico di romanticismo, in cui volevo trasparissero tracce di riferimenti a Paperino e l’avventura sottomarina, scritta da Rodolfo Cimino, e al romanzo Gli anni della fenice di Ray Bradbury (che diventò un grande film diretto da Truffaut col titolo Fahrenheit 451). 

Pure qui, al fianco di un Paperino audace e avventuroso, c’è una romantica figura femminile verso la quale Paperino prova un certo trasporto, e una piccola comunità che, invece di salvare i libri imparandoli a memoria, cerca di mettere in salvo la natura del proprio pianeta, minacciato da robot intenzionati a lastricarlo di metallo. 

La sua seconda storia, Topolino e il mistero della voce spezzata arriva dopo quasi quattro anni ed è quella che probabilmente la maggior parte dei lettori associa al suo nome. Può raccontarci qualcosa sulla sua genesi?

Da parecchi anni avevo nel cassetto un soggetto ispirato alla serie Ai confini della realtà, andata in onda negli anni Sessanta, dove narravo di una telefonata che impiegava un anno ad arrivare a causa di un evento atmosferico. Nel 1978 l’avevo proposto a Franco Fossati, allora redattore del settimanale Supergulp! che però chiuse pochi mesi dopo.

Nel 1990 decisi di recuperare la trama e di ristrutturarla radicalmente mettendo come protagonista Topolino, il personaggio dei fumetti disneyani che più amavo  grazie alle storie di Merrill De Maris e Floyd Gottfredson e di Romano Scarpa. Alla fine, raccontai (al telefono!) la storia a Giorgio e a Marconi, editor sempre disponibile al dialogo con gli autori oltre che abile sceneggiatore. Ambedue ne furono entusiasti.

Un inizio decisamente iconico

Eravamo tutti certi che Topolino e il mistero della voce spezzata sarebbe risultato un fumetto memorabile!

Le suggestioni del racconto vennero splendidamente tradotte, e molto spesso amplificate, dalla regia grafica di Cavazzano, la cui genialità si evince fin dalla prima tavola. Nella mia sceneggiatura l’ambiente, notturno e battuto dalla pioggia, era descritto in due vignette; lui, invece, raccolse tutti gli elementi in esse contenuti e inventò una sola, grande inquadratura capace di catturare l’attenzione del lettore e di trascinarlo in un’atmosfera che già si preannunciava carica di suspense. Il vento, il temporale, la cabina telefonica, l’asfalto bagnato, la  strada in salita, erano segni premonitori di un mistero incombente. 

All’epoca la storia ebbe un impatto notevole, contribuendo a rilanciare il personaggio del Topolino detective. Furono prodotti  gadget, venne lanciata una nuova testata a tema (Topomistery), vignette e immagini tratte dalle sue tavole campeggiavano ovunque… Cosa ha pensato davanti ad un effetto tanto dirompente?

Sinceramente, sapevo che la storia, particolare e lontana da quelle che da tempo venivano pubblicate sul settimanale, avrebbe “fatto colpo”, ma non mi aspettavo una simile riverbero. Ne ero inorgoglito: un fumetto mio e di Giorgio stava riaccendendo l’interesse del pubblico per storie gialle, misteriose, noir interpretate da Topolino.

La voce spezzata arriva in un momento difficile per Topolino. La caratterizzazione del personaggio era ormai adagiata su dei comodi e fastidiosi stereotipi, soprattutto in tema di gialli dove raramente le vicende riuscivano a risultare coinvolgenti. Avvertiva anche lei, come noi lettori di allora, la necessità di una robusta sterzata nelle sue avventure?

Penso che La voce spezzata abbia contribuito a una svolta nella produzione di avventure topolinesche. Con quella, come in tutte le mia storie successive, ho cercato di restituire a Topolino quella simpatia, quell’acume, quella “umanità” che gli appartenevano fin dalle origini e  che molte volte in quegli anni, vicende insipide e detection banalotte avevano dissipato.

L’eleganza dell’impermeabile

Amo le avventure di Topolino nelle quali gli viene data la possibilità di manifestare appieno il carattere che lo ha reso universalmente famoso. Topolino è perspicace, arguto, impavido, scanzonato, romantico… soprattutto curioso. A differenza di quanto capita a molti di noi, è diventato adulto senza perdere l’abitudine propria dei bambini di porre e soprattutto di porsi domande sul perché delle cose. Lui non si accontenta di risposte superficiali; istintivamente è portato a frugare nel profondo, a individuare e capire le cause piuttosto che subire gli effetti. Quando deve penetrare nei labirinti più inquietanti, la curiosità è il filo d’Arianna che mai lo abbandona e che, alla fine, gli da la forza per  districare gli enigmi e i misteri.

Tra gli elementi che hanno contribuito a rendere questa storia un classico fin dall’uscita, oltre all’ambientazione dichiaratamente hard-boiled c’è sicuramente il look di Topolino, con impermeabile e cappello di ordinanza, come un Marlowe disneyano e che come tale si comporta, indagando da solo. L’idea di abbigliarlo in questo modo è sua o anche Cavazzano (autore dei magnifici disegni) ha contribuito?

Con la scusa della pioggia ho fatto indossare a Topolino l’indumento che caratterizza l’investigatore. In una vignetta di tavola 8 scrivevo “Topolino, con impermeabile stile Bogart che indosserà per gran parte della storia, avanza verso…”. Poi è stato Cavazzano a mettergli in testa il cappello con la falda alzata che fa assomigliare il nostro eroe non solo a Bogart, ma anche a Alan Ladd nel film Il fuorilegge e a Robert Mitchum in Marlowe, il poliziotto privato, attori paradigmatici del genere hard-boiled.

Le matite di Cavazzano per l’asta dell’Enigma del faro

Ne La voce spezzata, nella successiva Topolino e l’enigma del faro e in qualche misura anche in altre sue storie, sembrano fondersi due scuole del giallo: ambientazioni, psicologie, caratterizzazioni prese appunto dal giallo americano, unite alla indagine minuziosa con tanto di “passerella” finale del detective che può illustrare tutto il suo ragionamento e svelare il colpevole tipiche del giallo classico. Si è ispirato a qualche autore del passato (penso allo Scarpa de L’unghia di Kalì ad esempio) o è stata una sua scelta deliberata?

Ho amato molto L’unghia di Kalì per l’originalità della trama, per la caratterizzazione dei protagonisti, per il finale davvero inaspettato. È certamente un capolavoro e un riferimento imprescindibile per chi scrive, disegna o legge Topolino. La mia speranza è di essere riuscito, almeno qualche volta, a ottenere quella stessa magica alchimia.

Anch’io, emulo di Romano Scarpa, ho intrecciato il thriller e l’investigazione, il giallo d’azione e il giallo ad enigma. Inoltre, per emozionare, divertire, meravigliare i lettori, non ho esitato a utilizzare character rubati a vecchi gangster movies e a chiedere aiuto (aiotto! aiotto!) a John Dickson Carr, a Dashiell Hammett, a Ed McBain, a Donald Westlake e agli altri romanzieri che mi hanno insegnato le regole del giallo.

Un esperimento riuscito è stato quello di promuovere a protagonisti personaggi che nascono come spalle: Gambadilegno (di cui ha esplorato il rapporto quasi simbiotico con Topolino), Manetta, Basettoni grazie a lei acquistano una dimensione diversa e la sua lezione farà scuola per altri autori. Come ha capito che questi character avevano le potenzialità per reggere storie importanti da soli, senza Topolino?

Gamba, Basettoni, Manetta (e altri) da decenni recitano al fianco di Topolino e, con le loro caratterizzazioni, offrono al mattatore l’opportunità di riscuotere applausi a scena aperta. Sono degli attori con i fiocchi. È quindi naturale che gli capiti di calcare altri palcoscenici dove passare dal ruolo di spalla a quello di primattori. Io, intenzionato a mettere in luce questa loro particolare dimensione, ho deciso di seguirli, di conoscerli meglio e di documentarne le performance. Nella mia seconda storia gialla, ad esempio, mi sono dedicato completamente a Gambadilegno, andandogli dietro dappertutto, anche sui “luoghi di lavoro”. Si, è un tipo poco raccomandabile, un professionista del crimine, un ladro matricolato, ma quasi sempre fatica a quadrare il bilancio famigliare. Sogna di realizzare il colpo del secolo, e finisce in un supermercato a sgraffignare l’occorrente per la cena. Quando torna a casa, la sua compagna, Trudy, cerca di consolarlo, di ridargli fiducia, ma sul tavolo si vanno ammonticchiando le fatture da pagare.

Ecco, nonostante tutto, nonostante la fedina penale non immacolata, sono state proprio le sue defaillances a rendermelo simpatico, a farmi affezionare a lui. Mi ricordava un personaggio di Donald Westlake: John Archibald Dortmunder. Anche lui condivide l’appartamento con l’eterna fidanzata, May Bellamy, anche lui è un rapinatore, anche lui pianifica dei colpi che finiscono male, anche a lui – come accade a Gamba in Ritorno a Legcity e ne Il tesoro di Ululoa – capita di diventare l’inconsapevole pedina di qualcuno che trama nell’ombra.

Il rapporto tra Gambadilegno e Topolino viene esplorato da Mezzavilla nella direzione in cui poi Faraci imposterà molte delle sue storie più famose

Che i progetti criminali possano andare in fumo è un rischio che Gamba è disposto a correre, fa parte del mestiere. Ciò di cui non può fare a meno è vedere Topolino che corre alle sue spalle nel tentativo di brancarlo. È il loro pezzo forte, è il leitmotiv finale di tante scaramucce.

La notte in cui due gangster venuti da fuori hanno compiuto il rapimento di Topolino, Gamba è andato a letto contento. Il giorno dopo però gli è venuto il magone: se qualcuno aveva il diritto di rapire l’acerrimo nemico quello era lui! Cosa sarebbe Gamba senza il topastro? Chi si interesserebbe più alle sue imprese? Dunque, infila l’impermeabile (bogartiano) e parte, sulle tracce della concorrenza.

Nel quarto racconto giallo porto in scena Basettoni e Manetta. A Topolinia è estate e fa un caldo torrido (il clima condiziona spesso i comportamenti dei personaggi nelle mie trame). Manetta, grondante sudore, passeggia in maniche di camicia; il commissario, in sandali e pantaloncini, annaffia il giardino e in frigo ha una anguria da spartire con il collega. A perturbare la quiete provvede un essere misterioso che minaccia di mettere fuori uso l’acquedotto e far schiattare di sete la popolazione.

Toccherà ai due poliziotti, grassottelli e di mezza età (Topolino è in vacanza al Polo Nord), venire a capo della faccenda e dopo acrobazie, ruzzoloni, corse con l’acceleratore a tavoletta, scazzottate e bernoccoli, mettere al fresco il cattivone e la sua complice. Clap clap clap a tutta la compagnia!

Lei ha collaborato con la Disney nell’ultima parte della direzione Capelli, attraversando poi il passaggio di editore e quindi vivendo anche la direzione Cavaglione e parzialmente quella della Muci. Può raccontarci qual era il suo rapporto con Capelli (se lo conosceva) e più in generale con la redazione? Ci sono dei ricordi particolari che vuole condividere con noi?

La testata Topomistery fu lanciata durante la direzione di Gaudenzio Capelli come risposta al rinnovato interesse per le storie noir di Topolino, iniziato proprio a seguito dell’uscita de La voce spezzata

Come scrissi in una precedente risposta, conobbi Capelli nel 1986, in occasione della mia prima volta a Segrate. Fu un incontro di breve durata: mi comunicò l’entità del compenso e poi uscì per partecipare a una riunione con dei boss della Mondadori. Invece chiacchierai per più di un’ora con Marconi e con Giacomo Rosella, il caporedattore.

Ebbi modo di dialogare con Capelli qualche anno dopo, quando i periodici Disney avevano lasciato la Mondadori per entrare in Disney e si erano trasferiti prima in via Hoepli e poi in via Dante. Ricavai l’impressione di una persona gioviale e disponibile; mostrava stima nei confronti miei e del mio lavoro, cosa molto gratificante per un collaboratore. 

Nel 1994, col numero 2000 di Topolino, Capelli andò in pensione e il suo posto venne occupato da Paolo Cavaglione. Invece di andare io a Milano a incontrarlo, fu lui che venne nella mia città per conoscermi e per visitare la personale di Giorgio Cavazzano, da me curata, che era il clou dell’edizione autunnale di Treviso Comics. Durante la sua conduzione del settimanale, vennero messe in cantiere varie nuove serie. La prima – PKNA (Paperinik New Adventures) – fece il suo debutto in una mostra allestita in occasione della ventunesima edizione della rassegna trevigiana.

Nel 2011 io non collaboravo più con Topolino; lui, che dal 2000 era Direttore generale dei periodici dell’Editrice Quadratum, mi invitò a scrivere delle novelle per la rivista Intimità. Un gesto d’autentica amicizia.

Infine, Claretta Muci. Impossibile restare indifferenti alla sua simpatia e al suo entusiasmo.

Nel 1998, sotto la direzione di Paolo Cavaglione, Mezzavilla firma la sceneggiatura di Paperon Bisbeticus domato, storia che verrà scelta per il volume celebrativo sui cinquant’anni di parodie disneyane

Voi autori, come avete vissuto il cambio non solo dei direttori ma anche dell’editore? Ci sono stati dei cambiamenti avvertibili in tema di linee e contenuti editoriali?

Forse, i disegnatori e i soggettisti che vivono a Milano o nei paraggi, avendo la possibilità di frequentare la redazione e magari di instaurare dei rapporti confidenziali con i redattori, possono venire a conoscenza di cambiamenti di direttori o dei contenuti del settimanale.  Io – come altri che abitano in giro per l’Italia e a Milano vanno raramente – dei mutamenti nelle dinamiche aziendali o delle strategie editoriali ho saputo leggendo il colophon o l’indice di Topolino. La cosa che m’importava era la permanenza o meno di buoni rapporti professionali e umani.

Ha molto spesso privilegiato nelle sue storie tematiche abbastanza serie, sicuramente più adulte della media. Seppur mitigati comunque dal contesto disneyano, ha trattato temi e argomenti “scomodi”, dai sequestri di persona al tempo che passa e molti altri. Ha mai avuto problemi a far accettare qualche sua storia o ha dovuto cambiare qualcosa per permetterne la pubblicazione?

C’erano già tanti colleghi bravissimi nel creare vicende umoristiche: sarebbe stata dura competere con loro. Mi sono ritagliato uno spazietto nell’ambito dell’avventura e dell’investigazione, dove i personaggi finiscono in vicende misteriose e problematiche che li obbligano a mettere in mostra intelligenza, coraggio e simpatia, insomma, la loro personalità.

Ovviamente, come per le frittelle, non tutte le trame “riescono col buco”. Succede che il soggettista, abbagliato dalla propria creatività, ritenga di aver creato una storia ineccepibile e non si avveda di incongruenze e controsensi. È capitato a tutti e, dunque, anche a me.

Ma gli editor, in Disney come nelle altre case editrici, sono lì apposta, per individuare le pecche, per collaborare con l’autore a ristrutturare la storia o per scartarla, ovviamente fornendogli le motivazioni. L’una e l’altra opzione fanno parte della normale dialettica in questo tipo di rapporto professionale.

Scavare nella psicologia dei personaggi

Un’altra sua peculiarità, come già accennato, sono le psicologie dei personaggi e i rapporti tra loro. Ha scavato con abilità (e delicatezza) nel passato di Gamba e Manetta. Cosa l’ha spinta a indagare così in profondità nelle loro vite?

Quando scrivo una sceneggiatura, cerco sempre di entrare nei personaggi, di identificarmi con loro per trasferirne sulla carta, in maniera verosimile, comportamenti, pensieri e parole. Con i character disneyani, a forza di frequentarli, mi è venuta la voglia di andare a frugare nel loro passato e scovare (inventare) fatti e segreti, utili come materiale narrativo col quale suscitare l’interesse dei lettori.

Scoperto che il desiderio di ritrovare l’orsacchiotto di quand’era un pargoletto aleggiava da sempre nelle mente di Topolino (è documentato in Topolino e la villa dei misteri), sono passato a “psicanalizzare” Gambadilegno, storico antagonista del nostro, per capire la ragione della sua attitudine al crimine. Due pagine prima che Topolino e il mostro oscillante giungesse alla parola FINE l’ha confessata lui stesso. Nessuno, quand’era bambino gli ha raccontato le favole! 

Un trauma infantile, proprio come Topolino!

Nella fanciullezza di una personaggio al margine – Manetta – avrei voluto curiosare, ma non ne ho avuto il tempo. L’ho però forzato a togliere le gambe dalla scrivania, a mostrarsi intrepido e spericolato per braccare il Signore delle Macchine (Basettoni e il grande caldo), finanche a prendere le redini delle indagini, quella volta che il commissario andò in vacanza (Topolino e il weekend col gatto). Ho messo il suo nome nel titolo di una avventura (La banda di Manetta) perché ne era la vedette: sventava il rapimento di una affascinante attrice hollywoodiana e per di più ci rivelava che da giovanotto aveva suonato il contrabbasso in una jazz band (perché i flemmatici piedipiatti non dovrebbero avere il ritmo nel sangue?) 

Se c’è una certezza nelle storie Disney è che di Topolino ci si può fidare. Con La sindrome visionaria lei spazza via anche questo assioma. Per ricordare un Topolino così in difficoltà, dove anche il lettore arriva a dubitare di lui, bisogna forse tornare indietro di quasi mezzo secolo ai tempi del Doppio segreto di Macchia Nera. E non si è fermato qui: oltre a farlo passare per pazzo, lo ha fatto rapire, lo ha coinvolto in casi pericolosi… Perché “tormentarlo” così?

Non l’ho mai tormentato, lo giuro! Non è colpa mia se, invece di lasciare nell’armadio l’impermeabile bogartiano, invece di piazzarsi davanti al televisore, sprofondato in poltrona, partiva in quarta appena gli prospettavo  un rompicapo, deciso a sbrogliare la matassa. Io dovevo solo seguirlo per registrare gli avvenimenti in bella scrittura, come ogni bravo cronista. Il fatto è che lui è un tipo in gamba, assennato e circospetto, ma i pericoli si annidano ovunque e i guai sono i compagni di strada degli investigatori. Molte volte si è azzuffato con qualche tipaccio, le ha date e le ha prese,  ma poi tutto finiva con l’avversario ko e con l’applauso degli astanti.

Matite di Romano Scarpa per La sindrome visionaria

Durante la “sindrome visionaria”, però, si è beccato i fischi e i buuu. Doveva pur succedere, prima o poi. Anche ad altri “eroi” dei fumetti (Dick Tracy e Spiderman, tanto per fare due esempi) è capitato di  finire nella polvere del discredito. Ma è una cosa che dura poco, giusto una sequenza, appena una manciata di pagine. Topolino, con un guizzo dell’intelligenza, scoprì l’intrigo e sciolse i nodi della faccenda! Quella volta lo feci uscire di scena gongolante, soddisfatto di sé. Se lo meritava.

Topolino e il weekend col gatto è la mia preferita fra i suoi noir. Anche qui un espediente narrativo insolito (il ritorno di un nemico che in realtà i lettori non hanno mai conosciuto, come pure accadrà ne Il mistero di pupazzo di neve), un ladro ispirato ai tanti inafferrabili della narrativa, da Rocambole a Simon Templar, ma la vicenda ben presto si affranca dalla trama gialla per diventare qualcosa d’altro. Parlando di rispetto (tra il fuorilegge e il detective) e di orgoglio, si arrivano a toccare temi importanti come la nostalgia, il trascorrere del tempo, la vecchiaia. Cosa l’ha ispirata per una storia così delicata?

Volevo allontanarmi dal cliché Topolino vs Gambadilegno. Cercavo un altro avversario, uno che costringesse il nostro eroe a una caccia spietata. Tra un nuovo cattivone cui far mettere radici nelle vignette e una meteora avvistata una sola volta e scomparsa dopo aver lasciato un’indimenticabile scia, ho scelto la seconda opzione.

Topolino: caccia al Gatto

Sono andato nel passato e vi ho trovato un tizio che con Topolino aveva duellato in un’avventura mai balzata agli onori delle cronache (chissà quante altre hanno avuto lo stesso destino!). Non so dire che razza di animale antropomorfo fosse; indossava una calzamaglia nera, era magro e agilissimo, compieva i furti di notte saltando di tetto in tetto con movenze feline (la citazione di Caccia al ladro di Hitchcock è voluta), sul volto portava una maschera che corrispondeva al suo nome: Il Gatto!

Tornato in libertà, pagato il debito con la giustizia, si allontana per sempre dalla città ma prima vuole riappropriarsi della propria identità e lasciare a Topolino delle tracce di sé: esili souvenir che legano il passato al presente, ricordi destinati a rimanere, incancellabili, nella memoria.  

La sindrome visionaria non ha le atmosfere notturne e cupe di altre sue avventure, anzi c’è un’ambientazione familiare, quasi bucolica e per questo risulta ancora più inquietante. In qualche modo ha dei toni hitchcockiani. Ma un taglio cinematografico è rilevabile in quasi tutti i suoi lavori. In che modo la sua passione e la sua conoscenza del cinema hanno influenzato la sua scrittura?

Moltissimo, come ho già avuto modo di dire. Scrivo le sceneggiature come se la vicenda narrata finisse poi sulla pellicola di una macchina da presa. I tagli delle inquadrature, le prospettive, le espressioni dei personaggi e soprattutto le atmosfere che suggerisco ai disegnatori, derivano da quella mia passione.

C’è l’eco dei film che amo in quasi tutte le mia storie. Qualche titolo l’ho ricordato nel corso di questa intervista, altri possono essere facilmente individuati dai lettori.

Lei ha lavorato con alcuni dei più grandi disegnatori Disney: Cavazzano su tutti, ma anche De Vita, Scarpa e poi altri che grandi lo sarebbero diventati a breve come Mottura, Camboni, Perina… e sempre l’abbinamento storia-disegnatore si è rilevato azzeccato. Ad esempio non credo sia un caso che Scarpa abbia illustrato la più scarpiana fra le sue storie. La scelta del disegnatore è stata sempre frutto della redazione, ha avuto anche lei voce in capitolo o a volte sono stati gli stessi disegnatori a chiedere di poter lavorare con lei?

È la redazione che, doverosamente, decide a chi assegnare il compito di illustrare una sceneggiatura. I disegnatori disneyani sono tutti degli ottimi professionisti, per cui credo che la scelta cada su chi è libero in quel momento: risulterà in ogni caso azzeccata. Io, più che la voce in capitolo, ho avuto la fortuna di essere amico di Cavazzano, di abitare a mezz’ora di macchina da casa sua e di averlo reso partecipe delle mie trame, fin dal loro nascere. Molte volte ha chiesto e ottenuto di essere lui a disegnarle. Così, di tanto in tanto, andavo a trovarlo, ad assistere al suo lavoro certosino, a  fissare la matita intenta a ricamare immagini sui fogli che di li a poco Sandro Zemolin avrebbe inchiostrato.

Romano Scarpa abitava a Venezia (a mezz’ora di treno da casa mia). L’avevo intervistato nel 1975 ed ero solito telefonargli per invitarlo a Treviso Comics o per fargli gli auguri di buon anno, ma non mi era mai passato per la testa di andarlo a importunare con le mie storie. Tuttavia fu al suo stile grafico che pensai nello sceneggiare La sindrome visionaria, in cui veniva citata Zia Topolinda, personaggio da lui creato in Topolino e la collana Chirikawa.

La più scarpiana di tutte

Mandai il mio testo a Ezio Sisto, caporedattore sceneggiature, accompagnandolo con una prece: che venisse disegnato da Romano Scarpa! Una decina di giorni dopo fu proprio il maestro a telefonarmi. Aveva ricevuto la sceneggiatura, l’aveva letta, gli era piaciuta e adesso mi chiamava per dirmi che iniziava a disegnarla quello stesso giorno. Da quel momento lo sentii spesso;  man mano che terminava le matite, mi mandava le fotocopie delle tavole – che ancora conservo. Intervenne solo su una sequenza, modificandola un po’, ovviamente in meglio.

Quando La sindrome visionaria debuttò sul numero 2152, mi telefonò. La puntata era stata pubblicata alla fine del libretto, per ultima! Si sentiva offeso: la sua firma e la storia non meritavano quel trattamento!

Il disegnatore con cui ha lavorato di più è stato Cavazzano, una collaborazione che evidentemente va oltre il semplice ambito lavorativo.  Lo stesso disegnatore veneziano recentemente l’ha ringraziata per avergli “fatto capire le potenzialità dei personaggi attraverso l’interpretazione cinematografica”. Come nasce questo rapporto tra lei e Cavazzano, rapporto che si intuisce umano e di amicizia ancora prima che professionale?

Una delle tante qualità di Giorgio è la generosità: lo si capisce dalla dichiarazione che lei ha riportato. Ricevere il suo apprezzamento per un contributo, seppur minuscolo, dato alla sua arte, vale più di qualsiasi altro premio o encomio.

E poi, sono io a essergli grato per avermi indotto a scrivere storie disneyane e per aver tradotto in immagini le situazioni descritte nelle mie sceneggiature! Ancora oggi, nel riprendere in mano uno di quei fumetti o nello sfogliare una delle tante ristampe, mi soffermo ad ammirare il suo stile magistrale. Ogni volta, vengo catturato dalle prospettive, dal taglio delle inquadrature, dai tratti d’inchiostro che fissano gli infiniti dettagli dei panorami, dalla recitazione degli attori – da Topolino, Gambadilegno, Minni fino alla comparsa che si affaccia in una sola inquadratura – cui fa esprimere, col volto o con la postura le medesime emozioni e i medesimi sentimenti di noi umani.

Regia cavazzaniana

È lui che tiene in mano il filo della narrazione! Da cinquant’anni, con tecnica, etica e sensibilità inconfondibili, Giorgio fornisce e continuamente aggiorna la grammatica di tutto il fumetto disneyano, e non solo.

Lo conosco da quarant’anni – era ottobre del 1976, ci eravamo dati appuntamento a Padova, in occasione di una mostra del Messaggero dei Ragazzi. Da allora ci lega un’amicizia estesa a mogli e figli. Ci sentiamo al telefono e talvolta si cena insieme. Magari più tardi lo chiamo per informarlo di questa intervista.

Si può dire che non c’è quasi sua storia che non si lasci ricordare per qualcosa, vuoi la trama, vuoi qualche personaggio particolare o situazione inusuale: la banalità o, se preferisce, il “mestiere” sembra qualcosa di estraneo ad esse. Vista anche la frequenza piuttosto bassa della sua produzione (nei momenti più prolifici contiamo circa 3-4 storie l’anno), l’impressione è che si sia messo al tavolo da scrittura solo quando aveva davvero qualcosa da dire. È un’impressione giusta?

Sì, non sono uno scrittore seriale. Scrivo quando mi si affaccia alla mente un’immagine o un’ipotesi, informi magari, ma intriganti. Ci lavoro sopra con pazienza, raccogliendo spunti e suggerimenti dalle letture, dai film, come dalle esperienze quotidiane. Cerco di costruire qualcosa che abbia una forma riconoscibile, che mostri un po’ di me. L’iterazione di moduli convenzionali non mi interessa né mi diverte. Rifuggo gli stereotipi e i percorsi monotoni; mi piacciono le storie ben strutturate: quelle che divertono e lasciano un ricordo che dura nel tempo. In generale, apprezzo il detto popolare “meglio pochi ma buoni”.

Come abbiamo già detto, ha dato spazio a molti comprimari, li ha promossi a protagonisti assoluti, ha scavato nel loro passato e nei loro sentimenti eppure ha quasi sempre ignorato Pippo, che è la spalla storica di Mickey. Come mai questa avversione (se di avversione si può parlare)?

Come potrei provare avversione per un personaggio smodatamente simpatico come Pippo? Se l’ho usato raramente è perché, in molte mie storie thriller, Topolino affronta il mistero da solo, contando unicamente sulle proprie doti, senza quindi una spalla su cui appoggiarsi. Quando ho ideato un giallo deduttivo – Topolino in: Ombre nella giungla – gremito di personaggi, Pippo risultava indispensabile e gli ho assegnato la parte dell’assistente dell’investigatore che lui sa recitare alla perfezione.

Non ho mai pensato a storie in cui fosse protagonista assoluto: sapevo che non sarei riuscito a emulare l’humour che scorreva ne I mercoledì di Pippo di Rudy Salvagnini.

Topolino e la villa dei misteri è una storia inusuale (come tante sue d’altra parte), ha un che di magico, di onirico: dietro una parvenza di indagine si cela una avventura dolcissima e apparentemente irrisolta. Una vicenda che si dipana su piani diversi, a cui è quasi impossibile dare un significato pieno. Il lettore ne rimane affascinato e coinvolto anche se non riesce a mettere a fuoco il perché. Dopo tanti anni crede sia il caso di farcela spiegare dal suo autore o è meglio lasciare il lettore con le sue sensazioni, senza rompere l’incantesimo?

Credo che molti lettori della Villa dei misteri – almeno quelli che per primi la conobbero nel numero 2341 – siano stati condizionati da una noticina pubblicata in terza pagina. In essa si invitava il pubblico a partecipare a un gioco che consisteva nello scoprire chi tra i personaggi della storia era il “responsabile delle misteriose sparizioni”. 

La villa dei misteri, una delle storie più oniriche e introspettive di Topolino

Beh, non andai a disaminare le ragioni di quella inserzione redazionale, ma ebbi il timore che la “caccia” a un colpevole, avrebbe rischiato di distrarre non pochi lettori e di portarli fuori strada. Certo, è una storia atipica, enigmatica, elusiva, in cui – come ogni scrittore di noir fa con l’intento di alimentare la suspense – avevo disseminato falsi indizi, creato diversivi, confuso le piste e le tracce. Eppure la trama (nel senso di disposizione causale del fatti) è semplice: in una tiepida giornata di primavera, per i viali del parco passeggiano mamme e baby-sitter con i loro pargoli sul passeggino; Topolino, avvolto dal tepore del sole e cullato dalle loro voci, si addormenta su una panchina e sogna.

Sogna se stesso lattante, a spasso sulla carrozzina spinta dalla bambinaia, e rivive il dolore che provò quando si avvide che il suo orsacchiotto di pezza era caduto, o meglio, era sparito. A questo punto, il percorso onirico conduce il nostro eroe, adulto, in una villa abitata da personaggi bizzarri, dove avvengono strani fenomeni e dove le cose spariscono alla grande. Lì, nella villa dei misteri e dei sogni, Topolino scoprirà la porticina magica che scende nelle profondità dell’anima. Luogo in cui è ancora possibile riabbracciare Pinsù, l’orsacchiotto inconsciamente cercato da sempre.

Non direi che è una storia incompleta, bensì una storia che prova a spiegare, con l’aiuto di Topolino e attraverso allusioni e metafore, quanto le esperienze del passato, dell’infanzia in particolare, influenzino le scelte future nostre e degli eroi del fumetto.

Insomma, ho ipotizzato che la peculiare curiosità di Topolino, l’istintivo bisogno di cercare la verità, di indagare nei misteri e di provare a risolverli, abbiano preso il via dalla “sparizione” di Pinsù e dalla speranza di ritrovarlo, prima o poi. Si trattava di temi inediti in una storia disneyana; temevo un veto, ma Ezio Sisto fu coraggioso e l’approvò. 

Tante storie con i topi, poche con i paperi seppur ben riuscite. A cosa è dovuta questa preferenza?

Mettere in scena e far recitare insieme tutti i personaggi di Paperopoli, con le loro specifiche caratterizzazioni, senza risultare banale o ripetitivo non è cosa facile. Per questo mi sono accostato solo raramente al territorio narrativo in cui Cimino, Chendi, Pezzin eccellevano.

Il coinvolgimento e il divertimento nello scrivere le sceneggiature fu, comunque, assoluto. Mi sono addirittura spinto a inventare un personaggio nuovo – Elektra Watt, antica fiamma di Archimede – protagonista di Archimede e la testa fra le stelle, pubblicata su Minni & company con i disegni di Emanuele Barison.

Abbiamo scoperto dal suo sito che ci sono alcune sue storie Disney inedite, anche piuttosto lontane nel tempo: ci sono speranze di vederle pubblicate prima o poi?

L’arte di Cinzia Ghigliano per il primo web-comic d’Italia

Sono sceneggiature che furono commissionate e pagate. Sul perché e sul percome della loro mancata pubblicazione non mi è mai stato detto nulla, né io mi sono informato. È probabile che nessun disegnatore abbia mai avuto l’incarico di realizzarle.

Non solo Disney, durante e dopo ha portato avanti altri progetti: collaborazioni col Giornalino e con altri editori, lavorando con nomi di assoluto livello come Alessandrini, Palumbo, Torti… storie ambientate nel mondo dell’arte, un web-comic e altro ancora. Ci racconta qualcosa di questi suoi lavori extra Disney?

La prima collaborazione extra Disney, è stata per un progetto audace, ambizioso, pionieristico. Alle porte di Roma, in un antico casale, un gruppo di imprenditori aveva, nel 1999, dato vita a un portale internet in quattro lingue (www.bravitalia.com) dedicato agli italiani emigrati in giro per il mondo. Tra i vari prodotti che sarebbero stati messi a disposizione degli utenti, c’era anche il fumetto. Venni convocato da uno dei promotori che mi chiese di scrivere la storia di alcune famiglie di contadini che, sul finire dell’Ottocento, si imbarcano a Genova per le Americhe. Per la stesura grafica proposi Cinzia Ghigliano (premiata con lo Yellow Kid al Salone dei comics di Lucca del 1978). Sceneggiai la prima puntata: 48 tavole di due grandi vignette ciascuna, che Cinzia illustrò splendidamente.

Sergio Toppi per Antonio Vivaldi, una biografia a fumetti (2003)

Nel 2000 le tavole, una al giorno, cominciarono a essere pubblicate online; poi, a metà della programmazione, l’attività dell’impresa, per problemi tecnici e finanziari, prese a rallentare fino a fermarsi del tutto. La trasmissione di Là c’era l’America, questo era il titolo del lavoro mio e di Cinzia, si interruppe; comunque fu il primo web-comic italiano

Tre anni dopo, il mio amico Paolo Barcucci, editore a Montepulciano, mi chiese una biografia a fumetti di Antonio Vivaldi in cinque capitoli, da far illustrare ad altrettanti disegnatori. Ottenni l’adesione di due giovani professionisti – Maurizio Ribichini e Lorenzo Sartori – quindi puntai a tre maestri: Giancarlo Alessandrini, Alarico Gattia e Sergio Toppi. Mi dissero sì e io mi fregiai della loro collaborazione!

Nel 2010, Legambiente decise di utilizzare il fumetto in una campagna di sensibilizzazione verso la salvaguardia delle opere d’arte presenti un po’ ovunque nel nostro paese, e fui coinvolto nel progetto: dovevo ideare alcune storie ispirate a indagini dei Carabinieri del reparto tutela patrimonio culturale. Traendo spunto da sei loro “operazioni”  – che andavano  dal recupero di reperti archeologici al sequestro di un dipinto ottocentesco usato dalla mafia come mezzo di pagamento della droga – firmai altrettante sceneggiature che vennero illustrate da Giancarlo Alessandrini, Sara Colaone, Marco Corona, Giuseppe Palumbo, Maurizio Ribichini e Fabio Visintin. Inoltre, con le tavole degli artisti fu allestita una mostra all’Istituto nazionale per la grafica (per la prima volta vi entrarono i fumetti!) e realizzato un volume – Storie d’arte e di misfatti – per Coniglio editore.

Questa esperienza mi permise di conoscere e di frequentare degli autentici investigatori: i Carabinieri dell’arte. Per divulgare la loro attività, sconosciuta a molti, proposi a Stefano Gorla, direttore del Giornalino, di realizzare una serie di avventure che li vedevano sulle tracce di falsari, di tombaroli, di ladri di libri antichi. Composta da sette episodi, il primo disegnato da Massimo Bertolotti, gli altri da Rodolfo Torti, la serie venne pubblicata tra il 2012 e il 2013.

Mezzavilla e i Carabinieri: da Storie d’arte e di misfatti ai Tesori in fondo al mare

In conclusione lascio la parola a lei: aggiunga qualsiasi cosa che avrebbe voluto dire e che in questa intervista non è uscita fuori (per colpa del sottoscritto). In cambio le chiedo un saluto per i tanti lettori che apprezzano la sua opera

Continui così, caro Santarelli! Ha buone chances di diventare un detective. Il suo è stato un autentico interrogatorio di terzo grado, anche se epistolare. Mi ha perfino fatto dire cose che prima non avevo mai dichiarato! Se fossimo stati uno di fronte all’altro mi avrebbe puntato la lampada sugli occhi? Riconosco che è stato un inquisitore abile (mi ha obbligato a ripensare a una importante esperienza della mia vita) e competente: complimenti, dunque, per la profonda conoscenza dei miei lavori!

A tutti i fan di Topolino che hanno letto le mie storie e si sono divertiti, e a quelli che, magari incuriositi da ciò che hanno appena letto, si metteranno sulle tracce di vecchi numeri del settimanale, dico, forte, GRAZIE e BUONE LETTURE!

Ciao!

Autore dell'articolo: Gianni Santarelli

Abruzzese, ingegnere elettronico riconvertito in quel che serve al momento. Il mio rapporto con i fumetti segue tutta la trafila: comincio a cinque anni con le buste risparmio della Bianconi (sovvenzionato da mia zia), poi Disney, i supereroi Corno, i Bonelli (praticamente tutti, anche se abbandonati man mano). Verso i 18 anni scopro le riviste della Comic Art, leggo "Stray toaster" di Sienkiewicz e inizio un giro del mondo fumettistico che ancora non termina. Fumetto franco-belga, argentino, americano, autori celebri e sconosciuti, tutto finisce nella mia biblioteca, molto aspetta ancora di essere letto, nel frattempo dilapido una fortuna. Su due cose sono profondamente ignorante: i supereroi "classici" (ad eccezione di Batman, per cui ho una venerazione, non leggo una storia dell'uomo ragno & c. dagli anni 80) e il fumetto giapponese. Per il Papersera, con il nick "piccolobush", collaboro all'annuale premio, scrivo qualche articolo quando necessario e mi occupo, con puntuale ritardo, del settimanale "Topolino"