Intervista a Marco Nucci
Marco Nucci (1986, Castiglione dei Pepoli) è uno sceneggiatore italiano, dal 2019 in forza a Topolino. Sin dal suo esordio nei fumetti Disney si è distinto per ecletticità e originalità, imponendosi come uno dei più interessanti “nuovi sceneggiatori”, introdotti dalla gestione Bertani.
Nel 2021 è stato il vero mattatore del settimanale con oltre 800 tavole sceneggiate, tra cui spicca Gastone e la solitudine del quadrifoglio, che gli è valso il TopoOscar per la miglior storia lunga che si aggiunge a quello per il miglior sceneggiatore dell’anno appena passato.
Per festeggiare degnamente questi traguardi abbiamo contattato Marco, che ha accettato con entusiasmo di rispondere alle nostre domande. Quello che state per leggere è il risultato di questa chiacchierata.
Ciao Marco, ti ringraziamo per aver accettato di partecipare a questa intervista.
Cominciamo subito con i complimenti: hai recentemente conseguito un vero e proprio trionfo ai TopoOscar, il grande sondaggio con cui gli utenti del nostro sito vanno a premiare i migliori autori e le migliori storie dell’anno appena trascorso. Ti chiediamo subito un commento relativo a questo “traguardo”.
Sei stato premiato con la “statuetta virtuale” del miglior sceneggiatore, premio che in passato hanno vinto autori del calibro di Casty, numerose volte, e Francesco Artibani. In generale volevamo domandarti a quali autori ti sei ispirato nella tua “formazione disneyana”? E, in caso, cosa pensi di essere riuscito a rubacchiare o a ereditare?
Per citare lo scrittore Paolo Nori (che apprezzo molto e che vi consiglio): “quando mi fanno domande del genere per prima cosa rispondo che non lo so, poi vado avanti”. Ecco, non lo so, però vado avanti. Premetto che la mia formazione disneyana nasce un po’ da tutto, e non solo dai fumetti Disney. Anzi, non solo ai fumetti tout court, visto che un linguaggio non può e non deve nutrirsi unicamente di se stesso. Sarebbe una sorta di autocannibalismo, che finirebbe per impoverire le storie, come quando usi lo stesso filtro per l’acqua per due anni e lei diventa marrone.
Ma visto che la domanda è molto specifica, e premettendo che “non lo so”, ecco, cerco di guardare ai Maestri, quelli inarrivabili: Barks, Gottfredson, Walsh; e poi Scarpa, Martina, un’infarinata di Cimino e così via. Ma non li copio, ecco: si potrebbe dire, semmai, che cerco di non tradirne il canone, in una sorta di “negoziazione” tra la visione classica e la mia sensibilità. Scrivere per Disney è questo: rispettare una grammatica, e al contempo “sabotarla” e perturbarla. Ma senza strappi, morbidamente, con classicità ed equilibrio: equilibrio, sì. In effetti, è proprio come camminare su una corda, difficile allo stesso modo, e parimenti esaltante. Poi, certo, stravedo anche per Casty, e da bambino ho vissuto i folgoranti esordi di Tito Faraci e ho ammirato oltre ogni limite Don Rosa e la sua Saga. Ecco, che io lo voglia o no, le mie storie di paperi sono donrosiane. Parlo della loro struttura, eh: dei tempi comici, delle traiettorie del plot e dell’uso dei personaggi.
Il “viandante sul mare di denaro” realizzato da Giorgio Cavazzano
Poi ci sono i disegnatori: Cavazzano, De Vita, Carpi e tutto il carrozzone. Perché sapete, anche se ho premesso che “non lo so”, mi sento di affermare che spesso un disegno regala più ispirazione di mille sceneggiature. C’è un dipinto ad acrilico di Giorgio che mi ha sempre emozionato. Lo Zione, di spalle, osserva il suo denaro. Un’immagine semplice, ma la posa e il colore suggeriscono una sorta di imponenza, di solenne profondità, come nel famoso quadro di Friedrich, il Viandante sul mare. Quando osservo quel disegno penso che il “mio” Paperone vorrebbe essere così, come quel disegno. Mica facile.
La solitudine del quadrifoglio, con protagonista Gastone, è invece stata premiata come miglior storia lunga nel corso dell’annata appena trascorsa: ti aspettavi un simile riscontro per questa opera?
Io non mi aspetto niente. Cerco di scrivere storie interessanti, che tengano il lettore incollato alla pagina. Per me a contare è la geometria della scrittura: c’è solo la storia, il resto sono conseguenze. Certo, visto che non sono del tutto rimbambito immaginavo che il tono intimista de La solitudine del quadrifoglio avrebbe fatto parlar di sé, e il fatto che sia piaciuta a molti certo non mi infastidisce.
È stata un sceneggiatura delicata da scrivere, in bilico com’era tra il rispetto del canone e il revisionismo del personaggio, con un ritorno finale allo status quo, ma solo apparente: tutto torna com’era, ma tutto è cambiato. In quel periodo leggevo Steinbeck, e stavo riscoprendo la filmografia di Frank Capra, altro geniaccio. Credo di aver guardato un po’ a loro scrivendo la storia: mica volontariamente, sono cose che succedono e basta, come l’acqua che ti bagna quando piove. Poi, ovvio, a Steinbeck e Capra neanche mi ci sono avvicinato, ci mancherebbe.
Ma erano lì, sul mio comodino. Mi guardavano.
E comunque, la verità è che tutto merito dei disegni di Zanchi, dai. Non stiamo qui a raccontarcela. Splendidi.
Lusky, il miglior amico di John
Un’operazione simile a quella compiuta con Gastone, nel recupero e nell’approfondimento psicologico di alcuni comprimari, l’hai fatta anche con La ballata di John D. Rockerduck. Dobbiamo aspettarci altri approfondimenti? È un “genere” che ti appassiona? Quanto conta l’approfondimento psicologico nella tua scrittura e quanto trovi che sia adatto/utile/necessario ai personaggi Disney?
Le buone storie parlano SEMPRE del personaggio. Ci dicono qualcosa sul suo conto, altrimenti non sono buone storie, ma barzellette. Quindi, non è che sia un genere che mi appassiona, ma l’unico genere possibile. Neanche una gag a torte in faccia può prescindere da un meccanismo di approfondimento, che c’è sempre: a volte sussurrato, altre sbandierato con sfacciataggine come ne La ballata di John D. Rockerduck. Il nostro John, che forse ha visto Quarto potere, si barrica nella sua villa di famiglia, deluso dalle troppe batoste prese da Paperone. Quella che descrivo è una storia di depressione con conseguente rinascita, ma soprattutto una storia di amicizia: quella tra John e Lusky, che lo ammira, lo rispetta e lo protegge. Con discrezione, sì, ma affetto infinito. La storia è, parere mio, una storia di Lusky. Il suo comportamento mi ha davvero commosso: non me lo aspettavo, sapete?
Nelle mie storie l’approfondimento psicologico è spesso, anche se non sempre, preponderante: mica perché sono un tipo sensibile, quanto più perché, da professionista, sono consapevole di quanto una dinamica psicologica possa creare più suspense di, chennesò, una rapina in banca. Le azioni diventano interessanti solo se mosse dal giusto spettro emotivo: per questo il lettore è partecipe del riscatto di Rockerduck, perché ha vissuto la sua interiorità. Senza quell’ingrediente la storia non sarebbe convincente. E anche senza i disegni di Giorgio, ma questo è un altro argomento.
Anche se, al netto dell’introspezione, ci terrei a specificare che il momento del mio lavoro che preferisco è quello in cui riesco a farvi ridere. Tra le storie che ho scritto una delle mie preferite è Newton Pitagorico e l’aspirazione natalizia. Per un semplice motivo: fa ridere.
Parlando di un altro personaggio che hai rivitalizzato, a fine anno è stata pubblicata A Christmas Coot, una storia particolarmente apprezzata tra i paperseriani dato che è arrivata seconda nella sua categoria, a un pelo dalla vincitrice. Qui indaghi sulle emozioni di un personaggio che solitamente viene considerato solo un comprimario: come è arrivata l’idea di riadattare, anche in salsa horror, un classico come Il canto di Natale dando tanto spazio a Nonna Papera?
Non lo so, e vado avanti. Dunque, quando ideai A Christmas Coot Alex e la redazione avevano già deciso che gli albi natalizi sarebbero stati in continuity, con la storia di Macchia Nera al centro e le altre a fargli da satellite. Pertanto, ideando l’avventura su Nonna Papera, c’era la necessità che io rispettassi questa scelta. Ebbene, se c’è una cosa che adoro dei paletti editoriali è che spesso regalano degli assist formidabili, imprevedibili, che esclami: “Uau, senza il paletto editoriale non mi sarebbe mai venuto in mente! Viva i paletti editoriali! E anche i paletti di frassino editoriali, per le storie vampiresche!” Ti trovi a esclamare così, giuro.
E dopo averlo esclamato mi son detto: la bufera avrà fatto dei danni, magari vicino alla fattoria dei Coot. Se il cenone di Natale fosse a rischio, Nonna Papera come reagirebbe? Da questa domanda è nato il soggetto, che è una specie di Canto di Natale al contrario, o meglio, per obliquo, abbastanza rischioso. Perché rischioso? Grazie della domanda. Ecco, rischioso perché, me ne rendo conto, potrebbe essere tacciato di conservatorismo. Difendere il cenone potrebbe essere visto come una difesa dei valori della tradizione, che a me interessano poco, specie i valori americani più reazionari.
Nonna Papera alla riscossa
Il mio intento era mostrare la tenacia di Elvira, il suo non chinare il capo all’accidia, il compimento di un’impresa famigliare di per sé poco importante, ma metafora di uno slancio e di un calore universali. Come il Fitzcarraldo di Herzog porta una barca su una montagna, ecco che Nonna Papera porta i parenti a tavola. Elvira è un personaggio bellissimo e poco esplorato, di cui senza dubbio tornerò a parlare.
Impossibile non parlare a questo punto della saga di Macchia Nera che, con Io sono Macchia Nera e successivamente con Il bianco e il nero, ha riportato in auge il più tenebroso dei nemici di Topolino. Prima di mettersi all’opera con piani diabolici e inquietanti, però, il tuo Macchia è comparso in due storie prettamente umoristiche: Semplice, pulito, diretto e L’inarrestabile Ombra. È stato un passaggio obbligato rispetto alle precedenti visioni del personaggio? E che fine ha fatto l’insolita accoppiata con Sgrinfia?
Una peculiarità dei personaggi Disney è che, nel tempo, hanno sviluppato personalità multiple, che scorrono in parallelo sul settimanale in perfetta, contradditoria armonia. Il Paperino delle storie alla Al Taliaferro non è lo stesso Paperino delle storie di Paperinik. Agisce in modo diverso, punto e basta. Si tratta di una convenzione editoriale, che fa parte del patto di incredulità con il lettore. E vale anche per i cattivi, compreso Macchia Nera: da una parte c’è quello di Gottfredson, cupo e disturbante, dall’altra la rivisitazione post-moderna in stile Faraci, da farsa criminale.
Vanno bene entrambe, nessuna delle due è sbagliata, e andando a scavare ne troveremmo anche altre. Tuttavia c’è un tuttavia. Negli ultimi tempi la redazione ha pensato di unificare le caratterizzazioni dei personaggi, rendendoli più coerenti a se stessi, ed eliminando, di fatto, la “schizofrenia” editoriale a cui alludevo. E quando io e Alex siamo arrivati a parlare di Macchia Nera, ecco, è stato chiaro fin da subito che a prevalere sarebbe stata la sua parte oscura, che poi è la mia preferita. È però vero che scrivere le storie con Sgrinfia mi ha divertito molto, perché amo la commedia, e quelle son commedie. Una curiosità: la cagnetta Ombra dell’Inarrestabile Ombra è il mio cane. In questo preciso istante è acciambellata al mio fianco. Vi saluta.
Tornando alle due storie in coppia con Casty ai disegni, come ti sei approcciato a questo nuovo Macchia? E cosa volevi raccontare in queste storie?
Io sono Macchia Nera e Il Bianco e il nero vedono l’uomo in nero riprendersi lo scettro di cattivo numero uno del settimanale. Restando nei confini del linguaggio Disney, volevo raccontare una persona disturbata, accecata dalla rabbia, egocentrica, violenta, che sferra un attacco terrificante e quasi irrazionale alla città, al solo scopo di ricordare a tutti quanto è potente. Un’aggressione di stampo, se vogliamo, nichilista, che poco ha a che fare con il tornaconto economico.
Ne Il bianco e il nero Macchia Nera chiede un riscatto, è vero, ma solo per dimostrare che, semplicemente, può farlo: in realtà dell’oro non gliene importa granché, fidatevi. Sapevo che le storie sarebbero state illustrate da Casty, e in ogni vignetta ho cercato di servirlo al meglio. Nessuno come lui disegna Topolino, e con Topolino alludo al personaggio: dinamico, espressivo, semplicemente meraviglioso. Casty porta avanti la fiamma di Gottfredson e Scarpa, il suo topo è “quel topo lì”. Ne esiste uno migliore? Ecco, no. Poi è anche uno sceneggiatore inarrivabile e dalla voce personalissima, ma questo è un altro discorso, decisamente fuori tema.
Macchia Nera: il ritorno
Per farla molto molto molto (fin troppo!) breve, per mettere in scena il dittico su Macchia Nera ho adottato, per ritmo, grammatica e tono, un linguaggio a metà via tra il classico alla Walsh e il Dylan Dog di Sclavi. Loro sono mostri sacri, io sono tuttalpiù un ranocchio: ma questa era la mia intenzione, e penso di averla messa in pratica decentemente. Se no mica vincevo il TopoOscar, no?
Ti stai dando molto da fare con i gialli e i thriller. Assieme a Macchia Nera anche Minni nella casa dei mille corvi ha avuto un grande successo quest’anno, per non parlare delle storie di Mister Vertigo, che hanno trovato nella saga estiva una conclusione. È un genere che ti piace? Ti ispiri a qualcuno in particolare?
Mio padre è un chirurgo, ma ancor prima di essere un chirurgo è un cinefilo, specializzato in gialli e in thriller. Fin da quando ero alto così (e con così intendo all’incirca così – più o meno, eh) mi ha coinvolto nelle sue maratone ad alta tensione, mostrandomi La casa dalle finestre che ridono a sei anni, tutto Dario Argento a sette, Polanski a otto, e infine (nove anni) è passato ai grandi noir americani e all’espressionismo tedesco. Nel frattempo ho iniziato a leggere Agatha Christie, Edgar Allan Poe, Dylan Dog, e poi Simenon, Conan Doyle e via discorrendo. Se era giallo o se era horror, ecco, a me di norma interessava. Quindi è normale che sia finita così: amo gli enigmi, è vero, ma soprattutto l’incubo, il perturbante.
Minni nella casa dei mille corvi è una fiaba nera, che mostra dei meccanismi da whodunit, certo, ma che prima di tutto vuole essere una “visione onirica“, fatta di elementi semplici e netti. La neve, i corvi, il mulino notturno: il filo razionale del mistero è utile a dare sostanza e potabilità a una vicenda che prima di tutto è un detour onirico. Vi dirò, molte volte scrivendo ho pensato che l’avventura vissuta da Minni non fosse altro che un sogno, una specie di sublimazione della sua preoccupazione per Topolino. E che non stesse accadendo davvero. Minni si trova ancora sull’autobus per Nowhereville, e si è semplicemente addormentata.
Hitchcock sicuramente è molto presente nelle tue storie in riferimenti e citazioni. Ti va di parlarci di questa tua passione? In che modo ti influenza nella scrittura?
Se non ho nominato Alfred Hitchcock nella risposta precedente è solo perché avevo letto, con astuto anticipo, questa. Ecco, lui è proprio il mio preferito. Il maestro del brivido, ma soprattutto dello “sguardo”. Mi influenza in tutto, o almeno ci prova, visto che io sono un somaro e capisco poco. Hitch era in grado di mettere al guinzaglio l’attenzione dello spettatore, portandola a spasso dove meglio credeva. Di ingannarlo, sorprenderlo e avvincerlo, creando strati e strati di significato senza perdere mai un centesimo in termini di fruibilità, tramite un gioco di elusione e stilizzazione spesso consapevole, ma talvolta istintivo.
Muoveva le sue storie come fossero sogni, ma sogni a orologeria, in cui gli elementi onirici si muovevano in balletto, creando una realtà illusoriamente logica, ma in realtà subconscia e primordiale. Ecco, mi sto facendo prendere la mano e inizio a parlare come Enrico Ghezzi. Mi fermo, giacché l’argomento Hitchcock è troppo vasto, ci vorrebbe un manuale a parte. Inutile provarci qui.
Io mi limito a citarlo e amarlo, con l’affetto di un semplice ammiratore, scrivendo i fumetti, che non sono i film, ma una cosa molto diversa. Eh, già: il fumetto è un medium difficile. Non immaginate quanto. L’esempio più cristallino della capacità del lettore di immaginare. Il fumetto elude tutto: è un linguaggio cieco.
In ogni caso, l’insieme delle citazioni che inserisci nelle tue storie è davvero notevole. Ti piace che i lettori vadano a cercare e scoprire tutti i riferimenti, a mo’ di easter egg, oppure semplicemente ti diverti tu ad inserirle?
Le citazioni sono un gioco, e anche una scorciatoia che mi aiuta a famigliarizzare con la storia, a rendermela “simpatica”: per esempio, se chiamo un personaggio come il protagonista di un romanzo di Hemingway, ecco, allora immediatamente mi sembrerà di averlo già in qualche modo conosciuto, e farlo parlare e recitare mi verrà più naturale. Inoltre, c’è anche il fatto che io sono cresciuto, come lettore, con il Dylan Dog di Tiziano Sclavi, funambolo del citazionismo. Forse è stato anche questo a condizionarmi. Chissà. Per farla breve: “Non lo so, e vado avanti…”. Un’altra citazione, vedete? Sono incorreggibile!
Il direttore Bertani ha usato più volte la metafora della squadra di calcio per parlare del settimanale e di chi ci lavora. Volendo mantenerla, quest’anno ti sei trovato a giocare in molti ruoli diversi e sei stato certamente il perno attorno al quale ha ruotato la squadra. Secondo te in cosa sei stato “l’uomo giusto al posto giusto”?
Un altro tipo di lavoro di squadra
Con Alex l’affiatamento è perfetto. Lui è una persona molto intelligente e ricettiva, un direttore attento e una fucina di idee. Un vulcano, peraltro attivo, di quelli che non ci costruiresti la casa sotto. Questo per dire che la nostra collaborazione funziona alla grande. Poi c’è Davide Catenacci, il mio editor di fiducia: attento, brillante e arguto. Una bellissima persona e un grande professionista. Senza dimenticare Gaja, Stefano e tutti gli altri! Ecco, io queste cose non le scrivo per piaggeria, non è che spero che la redazione legga e pensi “Ma che gentile, Marco Nucci!”.
Le scrivo perché son vere: vi assicuro che Topolino è una macchina che funziona molto bene, in termini produttivi, e sono contento di essere a bordo con tanta costanza. Cerco di ricambiare con tutta la qualità di cui sono capace, consegnando nei tempi stabiliti e non smettendo mai e poi mai di rimuginare su soluzioni che rendano le mie storie più belle, nel linguaggio e nella struttura. Per concludere, se come dite voi sono “l’uomo giusto al momento giusto”, ecco, ammesso che sia vero, forse è perché lavoro tutti i giorni per tutto il giorno e non mi accontento mai di ciò che scrivo. Poi, ovvio, mi capita di realizzare storie che poi rileggo scuotendo la testa con aria funerea. Insomma, meno riuscite. Ma il cimento c’è sempre, perfino nell’errore.
Numerosi autori hanno disegnato le tue storie, tutti bravissimi. Se vuoi, e senza voler far torto a nessuno, quale scena tra quelle che hai sceneggiato quest’anno ti ha più impressionato per la resa finale rispetto a come te l’avevi immaginata? E con quale disegnatore tra i grandi del passato ti sarebbe piaciuto lavorare?
Impossibile, oltre che ingiusto, stilare una classifica. Ma visto che come sempre finisco per andare avanti, ammetto che la sequenza con lo spaventapasseri vivente di Paolo Mottura per A Christmas Coot mi ha fatto lacrimare di gioia, che il lavoro compiuto da Giorgio sulla Ballata mi ha incantato, e ho esultato per ogni singola vignetta di Casty (un vero onore, avere la sua matita sui miei testi). Poi ci sono Libero Ermetti, che fa recitare i personaggi come nessun altro, Stefano Zanchi, che è ormai un maestro, e infine il disegnatore con cui mi trovo meglio in assoluto: Stefano Intini.
Nucci & Intini, un duo irresistibile
Lui sì che mi capisce! Riesce sempre a cogliere la mia intenzione narrativa, solo che poi la disegna meglio. Vedo le sue tavole, sorrido e sono felice. Dovreste fargli una statua, a Intini: mi permetto di dire che il mondo non ha capito quanto è bravo. Un maestro assoluto, come del resto Mastantuono, con cui prima o poi amerei lavorare. Ma quello è così bravo anche a scrivere che probabilmente dovrò rinunciare. Chiudo ribadendo che la domanda è diabolica: mi sarò certamente dimenticato di citare qualcuno di bravissimo. Quando me ne ricorderò sarà tardi, starò malissimo e sarà tutta colpa tua, Papersera!
Sui disegnatori del passato è semplice: Romano Scarpa.
Hai avuto modo di fare un grande lavoro anche con il gruppo di ragazzi di Area 15 e più in generale con Newton e i nipotini: quanto influisce l’animazione americana nel tuo lavoro, specie nei personaggi preadolescenti? Pensando in particolare ai lavori di Cartoon Network, possiamo fare un paragone tra il tuo Newton e Dexter o è azzardato?
Mi trovo molto bene con i ragazzi di Area 15, anche se di preciso non so perché: non sono mai stato un granché, come nerd. Niente action figure, niente collezioni, niente giochi di ruolo. E neanche ho mai fatto parte di un club. Eppure mi sembra di capirli, quei personaggi, e ne riesco a sviluppare le complessità caratteriali, che sono molte e sono sfaccettate. Processo le loro storie con una sorta di (perdonate la parolaccia) realismo (scusate ancora), lasciando che la trama si dipani sulle loro emozioni.
Sono i personaggi a decidere, perché uno sceneggiatore non è libero di agire come gli pare: deve ascoltarli, i personaggi, non può fargli fare ciò che vuole per chiudere la trama e andare al mare. Ha il dovere di capire quali sono le loro intenzioni, negoziare, a costo di dialogarci per strada, ad alta voce, e far dire ai ragazzini: “Guarda, mamma, quel signore parla da solo!”. E invece no, non parlo da solo, parlo con i ragazzi di Area 15. E loro mi raccontano storie.
Passando ai cartoon, onestamente ne guardo pochi. Certo, Newton ha dei punti in comune con Dexter, ma nel tratteggiarlo sono andato per lo più a istinto: credo che la mia passione per il cinema slapstick abbia contribuito, e non perché i fumetti di Newton siano muti, visto che non lo sono, quanto più per il suo temperamento, eternamente calamitato verso un’ineluttabile catastrofe, ma lo stesso animato da un incrollabile ottimismo.
Raccontare, leggere e raccontare ancora
Come certi personaggi dello slapstick, che distruggono e dimenticano. Poi ci sarebbe da scrivere molto altro, ma siamo alla dodicesima domanda e comincio a essere poco lucido. Aspettate, mi faccio un espresso con la caffettiera quantistica a pedali.
….
Eccomi. Fatto. Squisito.
Andiamo avanti.
Rimanendo sul tema, l’estate scorsa hai portato i giovanissimi giocatori del 313 FC in giro per il Calisota in occasione della Calisota Summer Cup. Che sfida è per te scrivere storie “evento” così lunghe e articolate (in questo caso siamo a 122 pagine!), a loro volta collegate ad altre vicende che si svolgono in parallelo firmate da altri autori? Come vi coordinate per far quadrare tutto nel nuovo worldbuilding di Topolino?
Scrivere storie lunghe è difficile quanto scriverne di medie e di brevi. Ossia difficilissimo. Pensateci bene: io racconto una storia di paperi tramite immagini statiche, tu la leggi, ti immedesimi e ti emozioni. Mica semplice, eh. Riguardo alle saghe “lunghe”, visto che la domanda verte su quelle, i problemi sono molteplici: il primo è costruire un intreccio abbastanza memorabile da richiedere tutta quella fatica, per me, per il disegnatore e per il lettore.
Il secondo è sviluppare la storia sia in verticale che in orizzontale, in modo che ogni episodio, per quanto si tratti di un segmento, possieda un proprio arco drammatico concluso e al contempo rilanci la posta verso il successivo, senza che però la storia in generale perda di mordente. Il terzo è un problema di cuore: io per le mie storie voglio provare affetto, se no non riesco a raccontarle. Solo che a volte ci metto un po’ a trovarne una che mi faccia innamorare. Questo fatto mi rema contro, ma si sa: quello tra amore e professionalità è da sempre un rapporto burrascoso.
Per orchestrare il worldbuilding io e gli altri autori agiamo in modo molto semplice: ci telefoniamo, ci mandiamo mail e via discorrendo, e infine condividiamo i file di lavorazione e, se non basta, ad appianare eventuali incongruenze ci pensa la redazione. Una risposta poco avvincente, lo riconosco, ma si sa… la vita dei fumettari è ben meno vibrante di quella dei loro personaggi.
Hai goduto di una certa notorietà con la graphic novel L’uomo delle valigie. Considerando il ciclo di Macchia Nera su un altro piano, ti vedremo al lavoro su un noir urbano su Topolino?
Sicuramente sì, ma solo quando arriverà la storia giusta. Cucire addosso al topo un hard-boiled fatto come si deve pone anzitutto problemi di ordine iconografico, giacché senza pistole e morti ammazzati il genere rischia di perdere la sua forza. Ma le storie Disney hanno il magico potere di superare in corsa i propri legittimi impedimenti di contenuto: ci vuole solo un’idea forte, che trascenda gli elementi cosmetici senza però negarli. Semplicemente lasciandoli fuori campo.
L’uomo delle valigie, la graphic novel di Marco Nucci e Lorenzo Zaghi
Quella de L’uomo delle valigie sarebbe stata perfetta, ma ahimè l’ho già scritta. Ne arriverà un’altra, abbiate pazienza, ma la scriverò solo se sarò io il primo a restarne stupito, e avrò sempre un occhio di riguardo per il noir, uno dei miei generi di favore: così esistenziale, metafisico e “morale”. Nel cinema i miei preferiti restano quelli di Fritz Lang, che vertono con passo espressionista sul concetto di senso di colpa, e nei romanzi l’opera di Raymond Chandler, così umanista e disperato.
Per chiudere: ho appena finito di scrivere un thriller disneyano che potrebbe stupirvi. Non è esattamente un noir, ma… vabbe’, passiamo alla prossima domanda. Vi lascio nella suspense.
Dopo aver messo mano ad antagonisti come Macchia Nera e Rockerduck, come ti vedresti alle prese con un supereroe? Ogni riferimento a Pikappa è puramente casuale.
Con PK ci sono cresciuto. Ricordo l’uscita del numero 0, Evroniani, come un evento memorabile della mia infanzia. Avrò avuto dieci anni o giù di lì, e anche se avevo già visto Argento e Polanski lo stesso la lettura mi impressionò. Era fresca, potente, adulta. E il montaggio delle tavole era qualcosa di mai visto in Disney. Gabbia libera, anzi, liberissima, oserei dire esplosa. Mi piacerebbe un giorno o l’altro cimentarmi con il personaggio, ma mi prenderei sei mesi buoni per rileggere tutta la serie con la lente di Sherlock Holmes, e altri sei per partorire l’idea giusta. Nutro un profondo rispetto per la serie, e senza il soggetto giusto non muoverei un dito. Lungi da me voler danneggiare un mito.
Negli ultimi anni sembra che la nostalgia sia un elemento fondamentale nel campo dell’intrattenimento (si pensi anche solo a tutti i recenti sequel e reboot cinematografici) e anche in alcune tue storie sembra aver parte un forte richiamo “ai bei tempi andati” (Retrogaming!, Vent’anni dopo). Quale pensi sia la sua funzione nell’odierna narrazione e quanto ti piace farne uso?
La nostalgia è un sentimento che provo raramente, anzi, mai. La detesto. Alle cene con gli amici, quando partono i “Ti ricordi quella volta in cui” mi alzo ed esco a fumare, che fa male, lo so, ma sempre meno della nostalgia. Sono un pessimista, lo ammetto, ma bene o male amo vivere nel presente e guardare al futuro. Infatti, se prestate attenzione, nelle mie storie si parla sempre di un “superamento della nostalgia”. Le memorie e i rimpianti sono belli solo quando diventano una base su cui costruire ciò che verrà: è così che trovano la loro poesia, quando si fanno segno di un cambiamento. Altrimenti sono fuffa, che in narrativa ha portato a risultati goffi e intellettualmente disonesti. Poi, vi ripeto: Non lo so. E non lo sapevo neanche da giovane. Eh, bei tempi!
Ombra è già pronta per la prossima passeggiata al parco
Dopo la scorpacciata del 2021 ormai ci abbiamo fatto l’abitudine! Quindi a questo punto non possiamo non concludere chiedendoti qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri, su Topolino e altrove. Cosa puoi dirci?
Sono tanti, troppi, sto male e gioisco al sol pensiero. Nel film Trumbo, che racconta la vita dell’omonimo sceneggiatore, per l’appunto Dalton Trumbo, c’è una scena in cui il protagonista è così indietro con le consegne degli script da essere costretto a immergersi in una vasca d’acqua fredda per tenersi sveglio, mentre continua a battere a macchina. Ecco, non sono ancora a quei livelli, ma in compenso di tanto in tanto mi spunta un herpes zoster. E quando spunta l’herpes zoster capisco di aver esagerato ed esco al parco con la mia cagnolina Ombra.
In ogni caso, non posso anticiparvi quasi niente, se non che nel 2022 leggerete molte mie storie disneyane, forse anche più che nell’anno passato, e ce ne sono almeno un paio piuttosto “rilevanti”, che quando mi hanno chiesto se volevo scriverle sono impallidito.
“Non lo so…” ho risposto.
Ma poi sono andato avanti.
Vi mando un saluto, un abbraccio e vi ringrazio per tutta l’attenzione che date ai “nostri” magnifici personaggi.
Ci vediamo nei fumetti.
15 MAR 2022