Topolino 3189

10 GEN 2017
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Parodia non è il termine adatto per la storia principale del numero di Topolino di questa settimana: nella parodia è insita una rivisitazione, anzi una contraffazione, eventualmente in chiave umoristica o satirica. Le parodie Disney non fanno eccezione, da I promessi paperi al Dracula di Bram Topker. Con “Metopolis” tutto questo non vale più, con questa storia si fa un passo avanti, o meglio, si fa un passo in una direzione diversa. Enna con Lo strano caso del Dottor Ratkyll e di Mister Hyde aveva fatto credere al lettore di essere di fronte a una semplice trasposizione dell'opera originale, salvo poi sorprenderlo alla fine virando su contenuti totalmente diversi. Con Metopolis questo non accade, non c'è l'ultima curva che rimette tutto in gioco, è un vero e proprio adattamento fumettistico del film a cui è ispirato, fedele fino alla fine, per quanto un fumetto Disney può esserlo ad un'opera che contiene comunque elementi non adatti ad un periodico come quello della Panini. Al netto di poche e non sostanziali differenze, difetti (ma difetti non è certo la parola esatta) e pregi si trasferiscono quindi dalla pellicola alla carta.

Metropolis si basa su una storia tutto sommato semplice, anche abbastanza banale e retorica pure per l'epoca in cui fu girato.
A decretarne il meritato successo è stata, come per altre pellicole (per esempio Blade Runner che deve molto, visivamente e non solo, al film di Lang), la fascinazione che sa ancora oggi trasmettere dovuta alle imponenti scenografie, a quell'ambientazione splendidamente diesel-punk ottant'anni prima che questo termine venisse coniato, a idee sottilmente inquietanti che si venano di filosofia e politica, come quella del robot creato per sostituire in tutto e per tutto le persone.
Tutto questo lo ritroviamo nella trasposizione firmata da Artibani e Mottura: il plot resta sostanzialmente immutato così come anche il messaggio di cui il film si faceva latore, seppure con qualche aggiustamento che in qualche modo lo attualizza, potendovi (o, forse, volendovi) cogliere riferimenti alla nostra contemporaneità. E così, dal cuore che deve unire la mente e le mani, si passa al desiderio di una città (un mondo) capace di accogliere tutti senza giustizie o esclusioni. E lo sceneggiatore sembra anche voler indicare nella scuola uno degli strumenti primari per ottenere questo, facendo di Maria/Minny una maestra là dove nella pellicola la sua professione non veniva esplicitata.

I disegni di Mottura, splendidi, riescono a ricreare perfettamente la grandiosità delle visioni create dagli scenografi di Lang e sono fin troppo sacrificate dalle ristrette dimensioni delle pagine del tascabile: quelle architetture gotiche, a tratti sghembe, che svettano verso i bordi delle tavole sembrano reclamare una edizione di grande formato che consenta di apprezzarle come meritano.

Lasciamo per la fine qualche commento riguardo i personaggi, forse l'unico vero appunto che si può fare a questa storia: la recitazione esasperata tipica del cinema espressionista dà a queste opere una forte impronta teatrale e questo non può non riflettersi su un lavoro che decida di ricalcarne in tutto le atmosfere. Ecco quindi che qua più che in altre parodie, i personaggi sono maggiormente attori, sacrificando in parte le loro caratteristiche per adeguarsi al ruolo che interpretano. A farne le spese più di tutti sono Gambadilegno e Macchianera: il primo è costretto a impersonare un ipotetico reggente per bypassare la relazione di parentela con Topolino, il secondo è poco credibile nei panni di Rotwang, in cui ben si sarebbe trovato invece Plottigat. Pippo si ritaglia un po' di spazio e prova a dar mostra della sua particolare visione delle cose ma il suo ruolo è puramente funzionale allo svolgimento delle vicende, senza un vero approfondimento. Chi invece dà una grande interpretazione è Minni, finalmente protagonista come mai le capita nelle storie ordinarie.

Topolino merita un discorso a parte: per lui l'autore è costretto a distaccarsi dalla caratterizzazione del Freder originale per “salvaguardarne” l'immagine. Freder è inizialmente un giovane di buona famiglia che passa le giornate nella sua proprietà, dilettandosi con ragazze e di fatto senza un pensiero al mondo. Sarà solo dopo l'incontro con Maria e i suoi ragazzi che comincerà a porsi delle domande e a voler sapere qualcosa di più sulla città che lo circonda. L'interpretazione di Topolino è invece sostanzialmente diversa: sin dall'inizio si dimostra insofferente verso la vita agiata che è obbligato a condurre e annoiato al punto da voler fuggire per esplorare liberamente la città. Nell'economia della vicenda il tutto non incide molto, siamo alle primissime tavole e subito dopo le due opere si allineano per cominciare a viaggiare in parallelo fino alla fine.

Eppure è sufficiente per una piccola riflessione: come sarebbe stata questa parodia interpretata dalla famiglia dei paperi? A prima vista la corrispondenza tra i personaggi sembra quasi più naturale: Paperina vale Minni quando c'è da affrontare un ruolo importante, Archimede poteva essere un ottimo Rotwang, mentre il rapporto zio – nipote sarebbe stato un ottimo surrogato di quello padre – figlio, con uno zione più che perfetto nei panni dell'imprenditore senza scrupoli che poi si ravvede. Soprattutto sarebbe stato perfetto Paperino che non ha i limiti di Topolino, “obbligato” ad essere moralmente irreprensibile e sempre dalla parte giusta anche quando non sa di esserlo. Il papero con la giubba invece è sempre stato più gaudente e molto sensibile al fascino femminile, sicuramente avrebbe prodotto una interpretazione più credibile del suo collega. Comunque si tratta solo di semplici divagazioni per il piacere della discussione, non possiamo avere nessuna controprova e quindi è doveroso ritenere giusta la scelta fatta dagli autori che sicuramente hanno valutato tutte le possibilità.

Di fronte a questa opera qualsiasi altra storia nello stesso numero rischia di passare in secondo piano, in questo caso però le rimanenti sono addirittura fagocitate visto che parliamo di una storia della P.I.A. e della seconda puntata dell'ennesima incarnazione dei WOM. Per la prima c'è solo da chiedersi perché mortificare un autore come Lavoradori assegnandogli storie che sono totalmente aliene al suo stile, finendo per rendere ancora più pesanti avventure che già con un autore più classico si farebbero fatica a leggere. Per WOM tocca rivalutare Ambrosio: con lui al timone della serie almeno permaneva il dubbio se fossero storie genuinamente naif oppure subdolamente furbe. Con i suoi successori non c'è nessun dubbio: è uno stanco trascinarsi, un dover scrivere queste storie perché evidentemente sono richieste ma senza alcun interesse, una soap-opera fantasy che va avanti soltanto per inerzia.

Per quanto riguarda l'apparato redazionale nulla da segnalare, ma nulla davvero e questo è abbastanza grave: tre righe di presentazione e un mini intervento dei due autori per “Metopolis” sono ben poca cosa.

Autore dell'articolo: Gianni Santarelli

Abruzzese, ingegnere elettronico riconvertito in quel che serve al momento. Il mio rapporto con i fumetti segue tutta la trafila: comincio a cinque anni con le buste risparmio della Bianconi (sovvenzionato da mia zia), poi Disney, i supereroi Corno, i Bonelli (praticamente tutti, anche se abbandonati man mano). Verso i 18 anni scopro le riviste della Comic Art, leggo "Stray toaster" di Sienkiewicz e inizio un giro del mondo fumettistico che ancora non termina. Fumetto franco-belga, argentino, americano, autori celebri e sconosciuti, tutto finisce nella mia biblioteca, molto aspetta ancora di essere letto, nel frattempo dilapido una fortuna. Su due cose sono profondamente ignorante: i supereroi "classici" (ad eccezione di Batman, per cui ho una venerazione, non leggo una storia dell'uomo ragno & c. dagli anni 80) e il fumetto giapponese. Per il Papersera, con il nick "piccolobush", collaboro all'annuale premio, scrivo qualche articolo quando necessario e mi occupo, con puntuale ritardo, del settimanale "Topolino"