Topostorie 18 – Gli insoliti sospetti
La copertina dell’albo, il cui titolo richiama il film di Singer
Nel maggio del 2014 Panini Comics (da un annetto nuovo editore responsabile delle pubblicazioni Disney da edicola per l’Italia) varò una nuova testata dal titolo Topostorie, la cui particolarità era quella di riportare in auge il sistema dei prologhi e delle tavole di raccordo: si trattava in sostanza di pagine di fumetto inedito che avevano il compito di legare assieme le storie ivi ristampate, creando l’illusione di un’unica macro-avventura, metodo utilizzato negli anni Sessanta ne I Classici Disney.
Non sono mai stato fan di questa tradizione, ragion per cui fui ben poco attratto da tale novità. Ciò non mi impedì di acquistare qua e là alcuni numeri, invogliato dalla tematica scelta e dalle storie selezionate.
Tra questi spicca il n. 18 dell’ottobre 2015, dal titolo Gli insoliti sospetti, che raccoglieva cinque storie gialle con Topolino protagonista dalla qualità molto buona.
In particolare era presente con ben due avventure Claudia Salvatori, la “giallista” disneyana per eccellenza in attività negli anni Novanta, con Il mistero della sachertorte e Il leggendario Rattinger. Già possedevo entrambe sui Topolino originali, ma averle maggiormente a portata di mano era un’occasione a cui non volli rinunciare, anche perché la prima delle due la ricordavo con grande affetto dall’infanzia. La ritrovai convincente e solida come allora, e anche la seconda si difendeva ancora benissimo, con una grazia notevole nella scrittura. Mi chiedo spesso come mai questa autrice sia così sottovalutata e poco ricordata.
Ricostruzione di un rapimento…
Le due avventure erano disegnate da Silvio Camboni, con un tratto forse un po’ ingessato nel rappresentare i personaggi ma che si riscattava con le atmosfere thriller che riusciva a impostare e con l’attenzione al dettaglio negli ambienti e negli oggetti.
L’altra perla dell’albo era L’evasione clinica, di Giorgio Pezzin e Giorgio Cavazzano, una delle storie-simbolo della “fase techno” del disegnatore veneto che però non avevo ancora avuto l’opportunità di leggere. Oltre ad essere veramente interessante da osservare sotto il profilo artistico, con vignette e inquadrature ardite, anche la sceneggiatura reggeva molto bene e l’ambientazione all’interno di un carcere caratterizzava in maniera marcata e insolita la vicenda, con un approccio vincente e avvincente.
Anche L’allucinante “caso” dei furti impossibili era per me inedita: niente di imperdibile stavolta, un giallo come se ne vedevano tanti su Topolino tra gli anni Settanta e Ottanta, eppure Bruno Concina impostò un intreccio piuttosto godibile, senza pretese ma con diverse false piste e un’indagine dal gusto classico ma non noioso. Massimo De Vita ai disegni era nella fase di transizione del suo stile tra quello degli anni Settanta e quello più compiuto di fine anni Ottanta: non è il periodo che preferisco dell’autore, ma si rintracciavano comunque elementi positivi e apprezzabili nel suo tratto, anche quando era per me meno convincente.
Chiaramente l’ipotesi più plausibile…
Le bizzarrie di Neoville invece la conoscevo e ricordavo bene: ancora De Vita alle matite ma Casty ai testi, stavolta, con la sua seconda storia in assoluto. Rispetto a quello che l’autore avrebbe realizzato successivamente questo giallettino primordiale potrebbe apparire poca cosa, ma a ben guardare vi si rintracciavano già elementi tipici della sua narrativa – l’attenzione alla tematica ambientale, il buon uso del rapporto tra Topolino e Pippo, il fantastico che irrompe nella realtà – e soprattutto si riconosceva una lucida capacità nell’impostare trama e dialoghi. Una storia che senza voler strafare centrava bene il punto e portava a casa il risultato a testa alta, iniziando pian piano a gettare le basi di un progetto autoriale e personale sul personaggio di Topolino che si sarebbe visto negli anni successivi.
Il disegnatore milanese, nel 2003, era nel pieno della sua maturità stilistica (almeno secondo me!) e contribuì certamente alla riuscita della storia, così come capitò per altre opere castyane del periodo.
Per quanto riguarda la storia di raccordo, non era niente di che: Massimo Marconi fece il possibile e per la verità il lavoro di “cucitura” non risultò nemmeno così goffo in questo caso, ma è proprio la necessità di collegare tra loro avventure indipendenti che non riuscivo e non riesco a condividere, considerando che nel migliore dei casi si andavano a modificare conclusioni e intenzioni delle opere originali e nel peggiore… non si aggiungeva nulla alla raccolta.
I disegni di una Lara Molinari irriconoscibile rispetto al suo tratto di quindici anni prima contribuiva a quel sentimento “respingente” che provai approcciandomi a quelle pagine, che lessi velocemente: d’altronde non erano quelle il motivo dell’acquisto, ma la possibilità di avere una raccoltina piacevole con alcuni gialli topolineschi raccolti insieme.
30 APR 2020